DANTE ALIGHIERI 1321-1921 OMAGGIO DELL' OLANDA EX LIBRIS J. C.WIRIX vw MANSVELT DANTE ALIGHIERI 1321 — 1921 DANTE ALIGHIERI 1321-1921 OMAGGIO DELL' OLANDA DANTE ALIGHIERI 1321-1921 Nella ricorrenza del secentenario dantesco anche 1'Olanda volle testimoniare la sua ammirazione per ü Sommo Poeta. A tale scopo sorse un comitato composto dei sottoscritti, tutti olandesi, tutti uniti dall'amore per 1'Italia e dal cultoche li anima per 1' Alighieri, e quasi tutti facenti parte dei Consigli Direttivi di quel benemerito sodalizio che dal Grande trae il nome. L'omaggio olandese dovrebbe, com'è nella speranza dei sottoscritti, dare un'idea del come sia sentito in Olanda il Divino Poeta, e di quanto in Olanda si sia fatto per lui. Ecco perchè essi offrono in questa grande occasione alla Biblioteca classense a Ravenna una raccolta, possibilmente completa, delle var ie edizioni delle opere dantesche, apparse in traduzione olandese, e dei libri scritti su Dante e le sue opere da olandesi. Offrono inoltre un volume commemorativo, comprendente una serie di studt sul Poeta, scritti da autori olandesi, alcuni esempi di traduzioni olandesi delle opere di Dante e una bibliografia olandese del!'Alighieri. Ed è cosi che anche rOlandasilusingadionorarel'Altissimo (Signora) M. HOFSTEDE-POUS KOOLHAAS Dott. A. W. BYVANCK Cav. C. GEBEL J. PIT Dott. J. WOLTERBEEK MULLER Cav. Uff. Ph. ZILCKEN AMSTERDAM (Signora) Th. SLEESWIJK-VAN BOSSE (Signora) A. WILMINK-GREVE Cav. Uff. A. B. HENNY W. A. VAN LEER Poeta! L'AIA P. MICHE E. VOM RATH Prof. Dott. J. J. SALVERDA DE GRAVE ARNHEM (Signora) E. G. BEER-LONGO (Signorina) H. J. BERLAGE (Signora) M.C.E. MEIHUIZEN-VAN DERPOEL (Signora) J. C. C. VOORBEIJTEL Dott. Z.Th.N.DE JONGH VAN ARKEL LEIDA (Signorina) A. VAN STEEDEN Prof. Dott. J. J. HARTMAN Prof. Dott. J. HUIZINGA Prof. Dott. K. SNEIJDERS DE VOGEL NIMEGA (Signorina) L. J. VAN EVERDINGEN (Signorina) L. FENTENER VAN VLISSINGEN ROTTERDAM (Signora) A. J. VAN DER HOEVEN (Signorina) B. SCHUELLER F. J. BRYCE Comm. J. HUDIG PREFAZIONE Un reale interessamento in Olanda per Dante Alighieri ebbe a manifestarsi solo nel secoio XIX. Non è detto con ciö che il Sommo Poeta d'Italia fosse anteriormente del tutto ignorato fra noi, ma sta perö il fatto che lo studio delle opere sue data di un secoio appena, mentre ancor piü recente, e di molto, si è 1'amore e 1'ammirazione che, fuor di una stretta cerchia di dotti si puó constatare per Dante in Olanda. E' appunto di questo promettente risveglio che il presente volume vuol essere testimonio nella ricorrenza del secentenario dantesco. Comprende esso volume una serie di articoli, scritti da autori viventi, e alcuni esempi di traduzioni olandesi di opere poetiche dell'Alighieri, scelte da lavori di noti dantisti, i quali inteserofar conoscere piü da vicino Dante ai loro connazionali, voltando nella loro madre lingua le opere del grande fiorentino. La bibliografia alla fine del volume offre una rassegna, il piü possibilmente completa, di quelle opere di Dante, che furono edite in traduzione olandese, e di tutti quegli scritti apparsi in Olanda sul1'Alighieri. Tale rassegna bibliografica, per quanto importante possa essere, non basta da per sè sola a provare quello che Dante significa per 1'Olanda e quello che 1'Olanda fece per Dante. Una piü chiara testimonianza di ciö noi ci lusinghiamo sia offerta dalla serie di articoli, in cui, giovani e vecchi, poeti e dotti, teologi e filosofi, si uniscono per presentarci il loro interessamento pel Poeta d'Italia, e per dirci il loro pensiero e 1'opera loro su Dante, per dirci il conforto e 1'ispirazione che attinsero dalle divine parole di lui, e come dalle sue opere si sentirono sollevati e fortificati. In base a tale criterio non sarebbe stato forse fuor di proposito intitolare il libro: La fortuna di Dante in Olanda. Pur essendo detti articoli alquanto tra loro differenti, nella loro armonica distribuzione a vicenda s'integrano. Precedono i saggi su Dante in Olanda. Ciö che 1' Alighieri disse dei paesi, facenti oggi parte del Regno dei Paesi Passi, è ampiamente esposto e commentato nel primo articolo. Seguonopoi glistudï concernenti il rapporto tra Erasmo, e i nostri piü grandi poeti Vondel e Hooft, col sommo poeta italiano, e alcune testimonianze di ammirazione dei piü giovani nostri studiosi. Vengono poscia gli articoli che trattano lo studio di Dante e 1'influenza ch'egli esercitö fuori d'Italia; i saggi su Dante e 1'arte; i saggi suil'influenza di altri poeti, e di alcune idee e dottrine su Dante stesso. La serie degli articoli viene poi chiusa da alcuni saggi sulle opere dantesche e su differenti passi della Divina Commedia. — Lo studio del dott. De Jong è pubblicato in latino, essendo stato scritto in detta lingua, tutti gli altri, tranneun breve componimento poetico in olandese, sono pubblicati in italiano. Quelli della dottoressa J. Goekoop-de Jongh e del dott. Hoogewerff furon scritti in italiano dagli autori stessi, quello del prof. Sassen fu tradotto in italiano dalla signorina A. de Man di Roma, lo studio del dott. Boeken fu voltato in lingua italiana dal dott. Giovanni Bach di Roma, con 1'aiuto dell'autore; tutti gli altri furon tradotti da Silvio Barbieri dell'Aia. Su noi incombe ora il gradito dovere di porgere lenostrepiü sentite grazie a tutti coloro che gentilmente e in diversa guisa si prestarono onde renderci possibile 1'adempimento del compito assuntoci, la pubblicazione, cioè, del presente volume; a coloro, i quali, o coU'inviarci i loro scritti, o coll'acconsentirci a far tradurre le opere loro, ci fornirono la materia necessaria; a coloro, inflne, numerosissimi, che ci permisero, finanziariamente, di porre insieme questo omaggio a Dante Alighieri. Ci sia lecito, come ci è doveroso e grato, di citare qui alcuni nomi in Italia e in Olanda: Corrado Ricci, vogliam dire, il quale ci suggeri di dare la presente forma al nostro omaggio pel secentenario dantesco; il dott. G. J. Hoogewerff, che, nostro solerte rappresentante a Roma, ebbe in ogni guisa a coadiuvarci validamente; il prof. dott. J. J. Salverda de Grave, che ci fu sempre largo del suo autorevolissimo consiglio, e infine due italiani, i quali, con opera lunga e attivissima, contribuirono a destare e a diffondere in Olanda 1'amor per 1'Italia e la sua letteratura: il nob. Romano Guarnieri, cioè, e il cav. Silvio Barbieri. D primo, 1'apostolo dell'italianita in tutta 1'Olanda, non puo esser qvii da noi dimenticato, pvir non avcndo egli prestato direttamente 1'opera sua al presente volume commemorativo. II cav. Silvio Barbieri, 1'entusiasta ed infaticabile presidente della „Dante Alighieri" per il Comitato dell'Aia, non è soltanto il traduttore, che voltó dall'olandese in modo cosi encomiabile nella lingua di Dante i vari articoli del libro, ma è eziandio colui, il quale, con la sua assidua collaborazione, ci agevolö di molto nel nostro assunto; è alui, senza dubbio, che spettano i nostri maggiori ringraziamenti. E questo libro sia, non soltanto un nostro omaggio al Sommo Poeta, ma anche un fervido augurio dell 'Olanda alTItalia eun saluto nel nome del grande patriota, simbolo dell'Italia unita, Dante Alighieri. II Comitato esecutivo A. W. BYVANCK W. A. VAN LEER A egregie cose il forte animo accendono L'urne de' forti,... Foscolo DOVE E COME DANTE RICORDA L'OLANDA Oegetonte, nel settimocerchio della prima cantica, presentasi L a Dante tra argini, cosi da rargli ricordare le difese idrauliche nella Fiandra contro il mare e quelle del nord d'Italia lungo il Brenta: Quale i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, Temendo il fiotto che inver lor s'avventa, Fanno lo schermo, percbè il mar si fuggia; E quale i Padovan lungo la Brenta, Per difender lor ville e lor castelli, Anzi che Chiarentana il caldo senta: A tale imagine eran fatti quelli, Tutto che nè si alti nè si grossi, Qual che si fosse, lo maestro felli (Inf. XV, 4—12). Alcuni commentatori, basandosi su questi versi, affermarono che 1'Alighieri con tutta probabiltta ebbe a visitare la Fiandra. „Nessun poeta" osserva W. E. Gladstone „cheintendadare un'idea d'una cosa veduta si varrebbe, come mezzo illustrati vo, d un oggetto qualunque, ma sibbene di un oggetto personal- mente osservato ( no poet when seeking to give an idea of a visual object, would employ as the vehicle of his illustration any such object but one with which he had been actually conversant)"'), pretesa questa nel suo complesso poco convincente. Dai noti versi danteschi: Non fece al corso suo si grosso velo Di verno la Danoia in Osterlic, Nè Tanai la sotto il freddo cielo, Com'era quivi (Inf. XXXII, 25-28), l) Dld Dante study ia Oxford? (Studtö Dante ad Oxford7), üu „The Nineteenth attury', 1892, 1032. oserebbe Gladstone dedurre che rAlighieri fu in Austria e in Russia? No, checchè possano addurre e Gladstone e Kraus,1) nonè affatto dimostrata la probabilita del viaggio di Dante nella Fiandra.2) Io credo che meglio faremmo attenerci, per quelche riguarda i vari peregrinaggi danteschi, ai sei punti esposti in argomento dallo Scartazzini.3) Dimostreremoquiinappressola grande probabilita che 1'Alighieri non abbia vistocoipropri occhi le dighe della Fiandra. Gli argini del Flegetonte, nei versi suddetti, non son certo citati per la prima volta nel poema. Dante ne fa pure menzione nel canto precedente: Lofondo suo ed ambo le pendici Fatt'eran pietra, e i margini da lato (Inf. XIV, 82-83). Che lavori di dighe siano di antica data nelle Fiandre è fuor di dubbio4), ma è assolutamente inammissibile che fin dal tempo di Dante si costruissero „pendici" di pietra. Tale argomento, nuovo a parer mio, sara stato ancor piü convincente nei secoli passati, che oggidi. Gliscrittori trail 1800 eil 1900 affermarono che le prime dighe con pendici di pietra comparverosolo in sul principio del secoio XVIII; ma Beekman nel 1905 potè dimostrare come tali manufatti fossero notiinZelandafindal 1650.5) Piü recenti studï ebbero a provare anzi che tal genere di lavori era noto, sia pure in forma assai primitiva, fin dal secoio XVI. Nella prefazione a un trattato sulle dighe di A.Vierlingh6) A. G. Verhoeven, infatti, lo espone estesamente e cosï cónclude: „Appare quindi in modo chiarissimo che le pendici di pietra in forma primitiva, sia pure in piccolo numero, dato il grande costo, si incontrano gia nel XVIsecoio."7) (p.XLVIIe segg.) Quantunque 1'uso di „pendici" di pietra sia di data ben piü anteriore a quella che finora credevasi, pure dalle paroledell'accuratissimo Verhoeven è lecito, a parer mio, con tutta sicurezza ») F. X Kraus, „Dante" (1897), 69 e segg. *) Vedl:H.Hauvette, „Dante"(Traduzione olandese di W. Davids),H7esegg.; 380 e segg. ") „Enciclopedia Dantesca", II (1899j, 1482 e segg. *) Gia fin dal secoio XI, come risulta da atti ufficiali. 6) „Het dijk- en waterschapsrecht in Nederland vóór 1795" (II diritto sulle dighe e sulle acque in Olanda prima del 1795). I (1905), 512. •) Edlto nel 1920 da J. De Hullu e A. G. Verhoeven. ') La sottolineatura è mla. dedurre che intorno al 1300 le dighe, lungo le coste dei Paesi Bassi, fossero tutte, senza eccezione alcuna, costruite di sola argilla; il che viene a dimostrarci in modo non dubbio che Dante non dettö la sua similitudine in seguito, diremo.aunsuosopraluogo nelle Fiandre. In Italia, dato il suolo petroso, molto pr obabilmente si sar anno impiegate, fin dalla remota antichita, tali difese idrauliche con pietre tolte dai monti, e cosi Dante avrè potuto agevolmente osservare coi suoi propri occhi di tali argini sul Brenta. Saran quindi stati questi, piü che le dighe fiamminghe, da lui presi a modello per descrivere nella Commedia gli argini e le „pendici" di Flegetonte. II disegno del Botticelli,1) illustrante il XV canto delrinferno, mostra due argini costruiti da semplici pietre non somiglianti affatto alle dighe fiamminghe, ciö che del resto non puö in nessun modo sorprenderci. Ma, ammesso pure che Dante non abbia veduto coi propri occhi le dighe fiamminghe, avra certo appreso della loro esistenza. Come del resto non sappiamo le fonti di innumerevoli altri passi delle opere dantesche.2) E'lecito credere che Dante apprendesse delle dighe fiamminghe da narrazioni orali. Bassermann non crede che la fama di tali dighe sia potuta giungere fino in Italia,3) ma noi non dobbiamo dimenticare che Bruges ai tempi di Dante era Tunica metropoli al di qua delle Alpi ed aveva frequentissime relazioni anche con ritalia.4) Nulla or quindi di piü facile che italiani, reduci dai ') Riprodotto, fra altri, da K. Federn, „Dante", 30. *) Non poco ci colpisce di vedere come il Poeta talvolta attinga a fonti, Ucuiuso certo a noi appare molto moderno. Cosi ricordo che il custode del pregevolissimo archivio diSiena, un valoroso garibaldino, nel 1910 mi spiegó come Dante per la sua Commedia si valse pure dei conti della citta di Siena. I particolari trovansi probabilmente nel „Dante in Siena" del1'Aquarone, libro che non potei procurarmi. Di tutti i luoghi che nella Divina Commedia atano Siena quello che meglio e piü corrisponde al mio ricordo trovasi nel canto XXIX, 132, dell' Inferno, ove parlasi dell'Abbagliato, il quale nel 1278 fu in Siena condannato per contravvenzione a un regolamento sulle taverne (vedi: Scartazzini. La Divina Commedia, 2a Edizione, 286, ad 132). Una domanda scritta da me rivolta in proposito al Regio Archivio di Siena non ottenne con mio rincrescimento alcuna risposta. s) „Ormedi Dante in Italia", 13. 4) H. Pirenne, „Geschiedenis van België" (Storia del Belgio), 1,248. Dante menziona pure in altro luogö Bruges „che sol' se stessa null'altra assimiglia>" \£ Blok* ..Geschiedenis van het Nederlandsche Volk" (Storia del popoio neerlandese) (2a. edizione), I, 606. Warnkönig-Gheldolf nell' „Histoire de la Fiandre" (Storia della Fiandra). II, 512 e segg. danno un elenco delle relazioni commercial! del secoio XIII tra la regione di Bruqes e i paesi del Mediterraneo. Paesi Bassi, abbiano raccontato ai loro compatriotti quanto ivi avea colpito la loro mente, come ad esempio, 1'alta statura dei frisoni') e il fatto che gü abitanti di questi bassi paesi eran sempre in dura lotta, onde opporre, forti e pazienti, le dighe al1'ira del mare, loro nemico iinplacabile. E sappiamo che gia nel 1180 esisteva quella diga, immensa per quei tempi, che non avra certo mancato di suscitare Tammirazione generale, la diga detta Honsdam, costruita a difesa di Bruges e della nascente citta di Damme controrimpetodel mare.2) Questa diga sorgeva a cinque chilometri al nord di Bruges. La maggior parte degli scrittori propende a credere che Dante parlasse di una costa ad sud della citta. „Tra Guizzante e Bruggia," recano alcuni manoscritti della Divina Commedia; altri recano „Guzzante" e si potrebbero citare parecchie altre varianti di tal nome, giacchè una edizione critica dell'opera massima del Sommo Poeta rimane, purtroppo, tuttora un pio desiderio. Gladstone dice che „cospicue autorité interpretano Guizzante per Wissant. Questo nome è caduto nell'oblio; ma il luogo, Wissant, esistette e sorgeva a quindici chilometri, o nove miglia, asud-ovest di Calais, ed era Ü porto, o un porto di partenza per 1'Inghilterra" („Guizzante, which is now interpreted, by ruling authority, to be Wissant. This name has passed out of recollection; but the place appears to have been fifteen kilometres, or nine miles, southwest of Calais, and to have been in ancient times the port, or a port, of departure for England.")3) Pur astraendo dal fatto che Wissant4) ancor oggi figura in tutte le carte della Francia,qualora 1'esatta versione sia „Guizzante," tal nome, per ragione di eufonia, viene a corrispondere abbastanza fedelmente a Witsant o Wissant. Ma lacosa muta completamente se noi non „Guizzante," ma sibbene „Guzzante" dovessimo leggere. In tal caso, alle autorita, vagamente ihvocate e non precisate da Gladstone, altre se ne possono *) Inferno XXXI, 61-66. *) A. Sanderus, .Verheerlijkt Vlaanderen" (Le Fiandre gloriflcate — 1732), 1,195. — A. Kluit, „Historia critica comitatus Hollandiae et Zeelandiae", I (1777). excursus VII, cap. I, p. 124 e segg. ») L c, 1036. , *) Secondo alcuni 1'antico Portus Itius o Iccius, dove Cesare concentrö la sua Hotta per la spedizione contro la Britannia. E. Lavisse, „Histoire de France", I", 91. invocare, le quali sosterrebbero se non altro la possibilita della designazione in favore di Kadzand, situata al nord di Bruges, lungo la Wielingen.1) Mi proverö ora di dimostrare non soltanto la possibilita, ma la grande probabilita, di una tale designazione. Anzitutto Wissant sarebbe stato un punto molto, ma molto male scelto quale confine meridionale della zona costiera fiamminga munita di dighe. Quel tratto di essa costa che si insinua nel territorio francese estendesi dal nord di Bergues (St. Winoxbergen), al confine belga, sino a Grevelingen,2) non dunque fin oltre Calais. Invece la contrada di Bruges, compresa Kadzand, aveva gia da tempo le sue dighe di difesa. A suffragare questa mia affermazione non intendo affatto riferirmi alle carte, importanti certo, depositate nei Regi Archivi di Middelburgo e che ci presentano una parte delle Fiandre e della Zelanda nell'anno 1288.3) E non intendo riferirmi a dette carte per due ragioni una d'indole generale, per la dubbia autenticita loro, e una d'indole speciale, essendovi Kadzand indicata in terraferma, mentre da un documento gia del 1231 èchiaramente nominata come isola."*) Ciö del resto concorda perfettamente con un „privilegio" del Franconato di Bruges dell'anno 1190, riguardante, per certe esenzioni, i cittadini di Kadzand.5) E che 1 isola di Kadzand gia fin da quel tempo fosse munita di dighe, appare in modo indiscutibile da un atto del marzo 1189, nel cartolario della badia di San Bavo a Gand, foglio 94.6) Da questo atto risulta che un certo Leoniusdi Kadzand, vassallo del conté di Fiandra, restituisce un appezzamento di terreno in Kadzand al Conté stesso, dal quale 1'aveva avuto in feudo. L'appezzamento in questione suddividevasi in varie parti, una delle quali ') Vedi Ie citaztoni In Scartazzini, „La Divina Commedia", 135, ad 4.— L. Gilliodts van beveren. „Coutumes des peütes villes et seigneuries endavées du quartier de Bruges (Costumi delle piccole citta e delle signorie comprese nella regione di Bruges"), II, 4. Citando il verso di Dante, 1'autore paria di „Cazzante", ció che deciderebbe precisamente per Kadzand. Ma non mi fu possibile trovar in nessun altro luogo una tale versione. *) E. Lavisse, „Histoire dePrance", I', 69. *) La principale è quella segnata col n. 23, di C. de Waard, „Inventaris van kaarten en teekeningen van het Rijksarchief in Zeeland (Inventario delle carte e dei disegni nei Regi Archivi della Zelanda ', 1916), 5. *) Serrure, „Cartulaire de St. Bavon", 171. *) L. Gilliodts van Se veren. „Coutume du Franc, de Bruges", II, 3 e segg ) Edito da Janssen e van Dale, „Bijdragen Zeeuwsch Vlaanderen" (Rassegna sulla Fiandra zelandese), IV, 242 e segg. era detta Tarwedic (die corrisponde all'odierno dijk, cioè diga), la cuiinterpretazione è chiarissimaenonlasciailbenchè menomo dubbio. Per le altre parti della giurisdizione del Franconatodi Bruges si ha abbondanza di prove. Citerö qui solo un documento del tempo di Dante, cioè quello del 2 maggio 1282, contenente una specie di regolamento sulle dighe di Heijensluis, a ovest di Bruges. La Honsdam del 1180 è gia stata nominata.1) Quale profonda e indimenticabüe impressione esercitasse sugli stranieri la bassa campagna dei „polders", adiacenti ai fiumi zelandesi, ce lo diceeloquentementeEdmondo De Amicis che ne paria sï per esteso nel suo libro sull'Olanda.2) E perchè uguale impressione non avra esercitata la stessa campagna su genti che qua nei tempi antichi venivan di lontano ? Non occorre certo qui invocare il fatto che gli abitanti di Kadzand, i quali gia fin dal 1270 intraprendevano lunghi viaggi per mare,3) abbiano portato all'estero la fama delle loro dighe, che per essi, invero, non potevano prèsentare nulla di straordinario. Ma che degli italiani, nel secoio XIII, reduci in patria dalle terre di Fiandra, abbiano raccontato ai loro connazionali della singolarita delle coste fiamminghe, è piü che probabile; ed ammesso ciö, si dovra ritenere probabile che Dante nel suo Inferno abbia inteso parlare piü che della combinazione BrugesWissant, dell'altra Bruges-Kadzand. Chi questa tesi sostiene trovasiinülustrecompagnia.Ilpoeta olandese Pieter Corneliszoon Hooft (1581 —1647) conosceva certo la Divina Commedia, giacchè tradusse il bennoto verso: Amor, che al cor gentil ratto s'apprende, (Inf. V, 100), conle parole: „De min, die ras int edel hart ontfonckt . ) Nell'unico luogo poi ove Hooft nomina espressamente Dante, e cioè nei versi:5) x) L. Gilliodts van Severen, „Coutume du Franc de Bruges", II, 67. *) „Olanda", 1 e segg. _ . , , ») L. GilÜodts van Severen, „Coutumes des petites villes et seigneunes enclavées du quartier de Bruges", II, 4. *) „P. C Hooft s Gedichten" (Poesie di P. C. Hooft), ediz. Leendertz, 14. 5) Nella lettera al Sodalizio „Inliefd' bloeyende", vs. 197-198: l.c. 10. -VediJ. Berg, „Over den invloed van de Italiaansche letterkunde op de Nederlandsche gedurende de 19e eeuw (Dell'influenza della letteratura italiana sulla letteratura olandese nel secoio XIX ), loo. „Dit Vaderlant compt toe een deel van Dantes lof, Diet Aertrijck dacht te laech tot hoger dichtens stof," (A questa Patria spetta in parte 1'elogio di Dante, Al quale troppo bassa apparve la terra per farne oggetto d'alta poesia), allude senza dubbio al canto XV dell'Inferno, versi 8—12. Se vuole indicare con „questa patria" il nord dei Paesi Bassi, un tale sfogo poetico del giovane Hooft è piü unfelice vaticinio che la constatazione di un fatto reale. Scrisseegli, infatti,i versi surriferiti nell'anno 1600, e in quel tempo Kadzand era ancora sotto il dominio spagnuolo, contro il quale gli olandesi erano insorti giè fin dal 1568 ed ancora lottavano. Solo nel 1604 il Principe Maurizio di Orange riusci a redimere Kadzand e la parte ovest della regione di Bruges'). Da allora gli abitanti di Kadzand rimasero sempre olandesi, tranne un breve intervallo durante 1'occupazione francese. D principe Federico Enrico nel 1633 conquistö Philippine, nel 1633 Sas-van-Gent e nel 1645 Hulst col territorio circostante. La sponda sud della Schelda occidentale era allora, per tutta la sua lunghezza, in possesso della Repubblica dei Paesi Bassi Uniti, e il territorio conquistato rimase una „Generaliteitsland", amministratadagli Stati Generali. Dunque non fu unita alla Zelanda, alla quale non apparteneva neppure storicamente. Nel medioevo, infatti, il confine tra la Zelanda e la Fiandra correva lungo la riva sud della Schelda occidentale e della „Wielingen", quindi in parte lungo il lato nord deü'isola di Kadzand. Quest'ultima apparteneva dunque alla Fiandra, la Schelda occidentale invece, con le sue foei nel Mar del Nord, apparteneva interamente alla Zelanda. Ciö è assolutamente incontestabile, come risulta, fra altro, da una sentenzadel „GranConsiglio" di Malines, in data 11 ottobre 1504. II breve sunto lasciatoci da Kluit2) di questa importantissima sentenza, che poneva fine, in favore della Zelanda, a una vertenza che si trascinava gia da un secoio, fu numerose volte copiato, e nelle copie, tutte indistintamente, si ') J. de Hullu, „De verovering van het land van Cadzand onder het beleid van prins Maurits van Oranje" (La conquista di Cadzand sotto il Principe Maurizio di Orange). 2) Historia Critica, II" (\ 782), 1081 e segg. perpetuö quell'errore commesso dal medesimo Kluit, la in quel passo ove dice che gli Zelandesi „mettoient en fait que ladite fleuve (la Schelda occidentale) de tout en tout estoit fleuve et stroom de Zeellande, saulf le conté de Flandres du coste et au long de Flandres y avoit autant et si avant iurisdiction qu'il povoit entrer en leauwe et aloncher d'une espee ou de la verge de iustice ce qu'il a volu exploicter", che dunque il conté di Fiandra (o il suo luogotenente) non ha alcuna giurisdizionesulla Schelda occidentale, tranne quella di entrar nelle acque del fiume per arrestare in nome della leggeiricercatidallagiustizia, toccandoli con la sua spada. „Aloncher", termine che non esiste, è quindi una corruzione di „atoucher." Piü strano ancora è che molti scrittori, alcuni dei quali citano esplicitamente la sentenza del 1504, ponganoilvecchio confine della Zelanda ancora piü al sud della sponda meridionale della Schelda occidentale. L'autorita di Kluit, sotto tale rispetto, ha loro giuocato un bel tiro.1) Essipongono il confine allo Zwino Sluische Gat (ora interrato), il braccio di mare che serviva come d'ingresso alle navi dirette dal Mare del Nord a Bruges. In base dunque a tale criterio, in istridente contrasto colla sentenza sovra citata di Malines, 1'isola di Kadzand, trovantesi fra la Schelda occidentale e lo Swin, sarebbe appartenuta, nei tempi antichi, alla Zelanda. Questi scrittori si basano su di un atto del 7 marzo 1167,2) nel quale è detto che il conté d'Olanda teneva in qualita di feudo, proprieta del conté di Fiandra, la Zelanda a ponente della Schelda (oriëntale). Quella regione è compresa, secondo tale atto, ,,interSceldetHiddeneze";Sceld indica qui la Schelda oriëntale, e 1'Hiddeneze, posteriormente detto anche Heijdenzee, corrisponderebbe esattamente allo Swin. Noi vedemmo perö che, per il privilegio sulla giurisdizione del Franconato di Bruges, in quel tempo (1190) Kadzand coi dintorni apparteneva al suddetto Franconato, non dunque alla Zelanda; e cosi 1'atto del 1504 pone il confine della ') Historia Critica. I. excursus VU, cap. I, p. 132. s) L. Ph. C. van den Bergh, „Oorkondenboek van Holland en Zeeland" (Registro degli atö d'Olanda e Zelanda), I, no. 147 (con data erronea). — Anche lo statuto Zelandese del 1256 cita in sul principio Hedensee quale confine meridionale della Zelanda. R. Fruin, Keuren van Zeeland (Statuti di Zelanda), 3. 9 Zelanda alla sponda sud della Schelda occidentale. Ciö concorda perfettamente collo statuto Zelandese del 13 novembre 1290, dal quale emerge che la Zelanda comincia al lato nord di Kadzand.1) La Schelda occidentale e la sua fbce sono qui dunque, in tutta 1'intera loro larghezza, considerate come facenti parte della Zelanda. Sta cosi incontrovertibile ü fatto, che con la denominazione Hedensee si vuole indicato il seno di mare alla foce della Schelda occidentale,2) riaffermando in pari tempo che Kadzand non entra a far parte della Zelanda. Nel 1604, come vedemmo, Kadzand vieneannessa alla Republica Neerlandese settentrionale (Noord-Nederlandsche Republiek), e solo verso il 1814 Kadzand formera, col resto della vecchia „Fiandra dello Stato" propriamente detta, una parte della provincia di Zelanda, alla cui capitale, Middelburgo, ancor oggi, i Kadzandesi affluiscono settimanalmente e numerosi al mercato e serbano ancora oggi, attraverso i secoli, intatto il loro dialetto e le antiche e sobrie foggie del vestire. Data la f ertilita del suolo, Kadzand gode di un grande benessere economico. Ne fanno testimonianza non pochi scrittori, tra i quali, piacemi qui citare, il fiorentino Ludovico Guicciardini, che visitö 1'Olanda nel secoio XVI, e che propende a credere aver il Sommo Poeta italiano inteso parlare, con la parola Guizzante, di Kadzand, di una citta, cioè, posta sulï'isola omonima con molti e ricchi villaggi.3) Quest'ultimo concetto non è giusto. La verita è che 1'isoladi Kadzand originariamente aveva un solo villaggio, chiamato Onzer Vrouwenkerke (La x) R. Fruin, „Keuren van Zeeland" (Statuti di Zelanda), 71. s) Un registro del 1435 cita 1'Heijdenzeepolder ndl'isola di Wulpen, a levante di Kadzand, presso, „de Wielingen". [J. DeHullu, „Aanteekeningen over de veranderingen langs de noordkust van westelijk Zeeuwsch-Vlaanderen van omstreeks 1415—1640" in: „Archief van het Zeeuwsch Genootschap", (Appunti sulle trasformazioni lungo la costa nord della Fiandra Zelandese occidentale nel periodo 1415—1640, in: Archivio della Societa Zelandese), 1915, 43]. Questo „polder" esisteva certamente ancora nel 1555 [C. de Waard, „Inventaris van de kaarten en teekeningen van het Rijksarchief in Zeeland," nr. 1403 (Inventario delle carte e dei disegni del Regio Archivio in Zelanda)]. Probabilmente durante la storica tempesta del 1 novembre 1570, anche questo „polder", con quanto rimaneva di Wulpen, veniva allagato dall'Hedensee, al quale un tempo era stato valorosamente strappato. Solo verso il 1637 Wulpen fu nuovamente difeso da dighe. Circa alle relazioni tra 1'Heijdensee, Wulpen e la Goedroensage (la saga, leggenda di Goedroen; pron. Gudrun) che si svolge in parte nella regione di Wulpen, vedi: W. J. A. Jonckbloet, „Geschiedenis der Midden-Nederlandsche dichtkunst" (Storia della poesia medioevale neerlandese), I, 78; E. Martin, Kudrun, (zweite Auflage), XLIX. 3) „Descrittione di tutti i Paesi Bassi." (1581), 416. chiesa di Nostra Signora) o Marienkerke(La chiesadi Maria),1) villaggio che poi assunse il nome di Kadzand. Al sud di esso esisteva gia nel 1302, un agglomeramento di case nominato „Ter Hofstede".2) Fra Marienkerke e Ter Hofstede nel 1604 nacque il villaggio Retrenchement o Cadsandria. Molto si è scritto intorno a Kadzand3) e molto si potrebbe scrivere ancora. Io mi sono perö limitato qui ad esporre sul1'argomento quanto puö riconnettersi alla Divina Commedia. Al benevolo lettore ora di giudicare se rAlighieri intese alludere a Kadzand col noto verso: Quale i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia. A. MEERKAMP VAN EMBDEN !) Bijdragen Zeeuwsch-Vlaanderen, (Rassegna sulla Fiandra Zelandese), II, 203 e segg. 2) Rijmkroniek van Melis Stoke (Cronaca poëtica di M. S.i ediz. W. G. Brill, VII, verso 1125. „, . ") Vedl: A. J. van der Aa „Aardrijkskundig woordenboek der Nederlanden . (Vocabolario geografleo dei Paesi Bassi), VI, 210 e segg. F. Nagtglas, „Zelandia Illustrata". II, 513 e segg — II Dr.J. De Hullunelle suenotesopracitate(nell'Archivio della Societa Zelandese, 1915, 29 e segg.) da un'esatta descrizione dei vari mutamenti verifleatisi lungo la costa nord della Fiandra Zelandese occidentale, tra il 1415 e il 1640. Per gl'istituti giudiziari del Franconato dl Bruges, anche per quanto concerne le „wateringen" o „polders", vedasi soprattutto: I. H. Gosses, „De rechterlijke organisatie van Zeeland in de Middeleeuwen" (L' organizzazione gludiziaria della Zelanda nel Medio Evo, 1917), in cui tl paragonano ampiamente e continuamente gl'istituti giudiziari Zelandesi con quelli Fiamminghi. Per Kadzand si consulti: L. Gilliodts van Severen, „Coutumes des petites villes et seigneuries enclavéesdu quartier de Bruges" (.Costumi delle piccole cittè e signorie comprese nella regione di Bruges), II, 1 e segg. L'Archivio della importante Corte Feudale di Kadzand trovasi ora nell'Archivio di stato Zelandese (Archivi giudiziari della Fiandra Zelandese, numeri 2308 e segg.). QUALE CONCETTO AVEVA ERASMO DI DANTE? Di fronte a due grandi spiriti di differenti epoche siamo in generale, e a ragione, sempre desiderosi di sapere quale concetto l'ultimo avesse del piü antico. E tale nostro desiderio è tanto piü forte quanto maggiore è il divario che separa i due grandi, come è appunto nel caso di Dante ed Erasmo. II grande contrasto tra questi due non lo si deve perö ricercare nell'ideale che essi si crearono, poichè nel loro atteggiamento di fronte al cristianesimo e al classicisme», e anche in ciö che ambedue chiedono al mondo, alla vita, riscontrasi una decisa ed intima affinita: un'alta e pura umanita, una nobilta di ordine e di pace nella societè formö in ambedue una brama ardente. Si, un grande amore per la pace unisce i due grandi. Ma nelle direttive del pensiero, nella loro indole, nel loro temperamento.... quale contrasto! Di fronte al Sommo Poeta 1'ameno autore olandese di lettere e di trattati; di fronte al grande artefice del pensiero, il padre di tutti gli autori di saggi; di fronte a colui che mai non rise, 1'uomo dal costante sorriso di scherno sulle labbra; di fronte a quel grande cuore d'Italia, questo grande spirit o d'Olanda ; di fronte a colui che grande sempre rimane nei suoi sfoghi personali d'ira e di odio (per tacere del suo amore), ecco quegli il quale, cosi raramente purtroppo, sa liberarsi da un accento di meschinita, pur la ove presentasi puro, profondo e nobile. Ed ora io mi chiedo: „Erasmo conobbe Dante? E se lo conobbe quale concetto se ne fece egli?" Ecco il quesito cui mi permetto dedicare queste poche mie pagine, le quali, quindi, verteranno piü sul grande di Rotterdam che sul grande fiorentino, ma trarranno ciö nondimeno principio dall'immortale valore di questi. V'ha un luogo solo, ch'io mi sappia, in cui Erasmo fa il nome di Dante, e lo fa cosi disfuggita, direi quasi, che non si saprebbe in verita quale interpretazione si debba dareauna talcitazione. E' quindi indispensabile considerare il passo nel nesso generale dell'opera, e ciö ci porta lontani tanto daU'Italia, quanto dal1'Olanda. II 16 settembre 1519 moriva a Londra John Colet, il nobile spirito che Erasmo altamente onorö, 1'amico che tanto contribui allo sviluppo della grande mente del rotterdamese, il quale con lui passó i tempi felici in Oxford. Allorquando Erasmo, unmese dopo la morte di Colet, apprese la triste notizia da Longolius, reduce dall'Inghilterra,1) ne rimase profondamenteaddolorato. L indomani egli scrisse a tutti i suoi amici inglesi quanto lo aveva colpito la fine del grande amico.2) „In trent'anni nessun'altra morte mi riusci tanto dolorosa" scrive a Tommaso Lupset; e a Riccardo Pace: „Ora che Colet è morto mi sento come tolta la meta della mia vita." Esprime agli amici la sua intenzione di scrivere e di tramandare ai posteri la vita di Colet, e prega ognuno di fornirgli tutte quelle notizie che possano agevolargli il compito. Solo verso 1'estate del 1520 fu ultimata 1'opera. II13 giugno di quell'anno3) Erasmo scrisse da Anderlecht, presso Bruxelles, luogo di riposo nei tempi che abitava Lovanio, una lunga lettera al suo giovane amico tedesco Jodocus Jonas, rettore dell'Universita di Erfurt, e sul quale il rotterdamese fondava grandi aspettative. Erasmo nel suo scritto riuniva la vita di Colet con quella di un altro suo amico venerato, Jean Vitrier, frate guardiano del Monastero dei Frati Minori in Saint Omer,4) e allo Jonas 1'olandese poneva cosi dinanzi i due uomini come un chiarissimo esempio di pura piëta „egregium aliquod pietatis exemplar, ad quod tuum institutum attemperes". L'umanista tedesco aveva infatti bisogno d'un forte stimolo verso le direttive erasmiane; egli pendeva gia verso Lutero che un anno piütardiavrebbeaccompagnato alla ') Epistolae n. 464, 465, 15 ottobrc 1519, col. 506. Queste lettere come le seguenti tutte non ancora in Allen, e quindi citate dall'edizione di Leida dell' „Opera Omnia", t. III, 1703. Alla guisa di Allen indicherö io pure 1'edizione di Leida con le lettere L. B, *) Ep. L. B. 467, 468, 469, 470, 471, 474, col. 508—512, tutte del 16e 17 ottobre 1519. ') Ep. L B. n. 435 col. 451 con 1'erronea data del 13 giugno 1519, anno in cui ancora viveva il Colet. Che debba leggers! 1520 risulta dal n. 523 col- 571, a Tommaso Lupset, del 23 agosto 1520: „Coleti nostri vitam epistola complexus sum etc" 4) Su Jean Vitrier vedere A. Renaudet, „Erasme, sa vie et son oeuvre jusqu'en 1517", Revue historique, t. CXI, p. 253. dieta di Vorms per trapiantarsi di poi a Wittenberg esepararsi cosi da Erasmo e dal suo ideale. In questa vita di Colet Erasmo descrive, fra altro, i molteplici studi che concorsero a formare di lui il teologo, il predicatore e il maestro.1) Nella sua gioventü professó la filosofia scolastica, e, come era consuetudine di quei tempi, consegui il titolodi „magister artium". Conosceva Cicerone, PlatoneePlotino, era pure versatissimo nelle matematiche. Fu poi in Francia e ben presto si trasferï in Italia per ivi studiare le opere di teologia. Egli sentivasi segnatamente attratto dagli antichi: Dionisio, Origene, Cipriano, Ambrogio, Ieronimo, anche Agostino, ma quest'ultimo in mmormisura.Nètrascuröl'AquinateeDuns Scotus. Era inoltre assai versato negli studi del diritto civile e canonico. „Finalmente non esisteva opera di storia o di istituzioni politiche dei predecessori ch'egli non avesse letto". Ed ora passo senz'altro al latino, perchè siamo giunti al luogo di cui si tratta. „Denique nullus erat liber historiam aut constitutiones continens majorum, quem ille non evolverat. Habet gens Britannica qui hoe praestiterunt apud suos, quod Dantes ac Petrarcha apud Italos. Et horum e vol vendis scriptis linguam expolivit, jam tum se praeparans ad praeconium sermonis euangelici. Reversus ex Italia, mox relictis parentum aedibus, Oxoniae maluit agere. Illic publice et gratis Paulinas epistolas omnes enarravit". Ecco dunque come e dove Erasmo fa il nome di Dante. „II popoio inglese ha uomini che nel proprio paese fecero quello che Dante e Petrarca fecero in Italia. Leggendo le loro opere Colet migliorö, raffinö la sua lingua allorquando accingevasi a diffondere la parola del Vangelo". A prima giunta appare evidente a quali autori inglesi Erasmo qui alluda. Gli scrittori, lecui opere valseroapurificare.araffinare maggiormente la lingua di Colet e a renderla atta all'ufficio di divulgazione evangehca, non possono essere che coloro, i quali, un secoio innanzi, avean saputo far assurgere la lingua inglese a lingua letteraria: Gower, Chaucer, Hoccleve, Lydgate. Erasmo dunque vide 1'importanza di Dante e Petrarca soprattutto in quella meravigliosa opera da essi compiuta, nell'innalzamento ') L. B., col. 456 A. cioè della loro stupenda lingua. E come non potra dunque grandemente colpirci il fatto che Erasmo, il quale probabilmente nulla lesse di Chaucer, abbia nello stesso tempo pensato a lui e al grande florentino? A Chaucer, il primo grande poeta fuori d'Italia, che conosceva 1'opera di Dante e adessamiravacome a fulgido esempio? a Chaucer che tanto elogiava „thegreat poet of Itaile" e „the laureat clerk Petrarch?" Ma, se meglio consideriamo la cosa, un lieve dubbio sentiamo sorgere in noi. E' proprio vero e sicuro che qui Erasmo abbia pensato all'eloquenza inglese di Colet? Colet predicava in inglese, certo, ma anche inlatino. E „praeconium sermoniseuangelici" non devesi interpretareinmodoristretto.puöparimente riferirsi all'insegnamento teologico. Delle lezioni di Colet ad Oxford sopra le epistole di San Paolo, lezioni citate da Erasmo in diretta relazione con quanto è piü sopra detto, sappiamo che turono tenuteinlatino/Jqualiconferenzedicaratterediremo accademico, dinanzi a un uditorio di dottori, diabatiedistudenti. Due volte Erasmo paria del talento di Colet come padrone della lingua, ed è chiaro come la luce del sole che ambedue le volte intendesi parlare di eloquenza latina. „E come dirö io" scrive egli, Erasmo, nellasua prima lettera al Colet nell'ottobre del 14992) „quanto mi ha colpito il tuo stile, placido, sobrio, senza affettazione, che sgorga quale limpidissima fonte da un animo profondo, sempre e dovunque uguale, aperto, semplice, pieno di modestia, mai volgare, nè contorto, nè oscuro, cosi che io son quasi portato a riconoscere 1'anima tua nella tua lettera. Dici ciö che intendi dire, mtendidireciöchedici.Letue parole, nate nell'animo tuo, non sulle labbra, seguono spontanee il pensiero, non questo segue le parole. Con felice agevolezza tu esprimi senza sforzo quello che ad altri sol consommo studio è dato esprimere." La seconda volta, invece, tratta del concetto proprio di Colet circa la padronanza della lingua.3) „Egli credeva di non dover attingere la facilita diparlar rettamente (recte loquendi) dalle prescrizioni dei grammatici; questi, assicurava ') Vedi F. Seebohm, „The Oxford reformers", pag. 29 e segg. e „Dictionary of National Biography, s. v. Colet. ^ Allen, n. 107,1, p. 245 = L. B. n. 41. *) Ep. L. B. n. 435, col. 460, B. egli, insegnano a parlar bene (ad bene dicendum); a parlar rettamente s'impara solo con la lettura dei migliori scrittori. Ma egli pagö del proprio quella sua opinione, giacchè, quantunque fosse per natura e per erudizione facondo e a sua disposizione fosse una immensa abbondanza di parole, pure cozzava, scrivendo, talvolta in cose che i critici sogliono condannare". Erasmo, in generale, ha dimostrato pochissimo interessamento alle lingue volgari. Puö quindi essere mai probabile che 1'uomo, il quale, a perpetuo danno e disdoro di noi olandesi, non ha mai dettato una sillaba nella sua lingua materna, abbia ricer- cato la fama di Dante e Petrarca nelle loro opere italiane ch'egli non poteva leggere? Giacchè, per quanto possa lacosa apparirci incredibile, Erasmo, che passö quasi tre anni interi in Italia (1506—1509), non ha mai conosciuto la lingua italiana. „Tu parli a un sordo, o chiaro signore, io ignoro la tua lingua volgare cosi come ignoro 1'indiano" diceva egli a Bernardo Ruccellai che non amava parlare con lui il latino.1) Ma, ammesso pure che Erasmo non conoscesse 1' italiano, noi per ö non dobbiamo dimenticare che il Petrarca, prima della meta del secoio XVI, non ai Sonetti e ai Xrionfi dove va egli la fama che go de va fuori d'Italia, ma bensi ai suoi trattati latini sui grandi dell'antichita, sulla morale e sulla vita, e soprattutto alle sue epistole. II Petrarca di Laura oscurö 1'altro Petrarca, ma solo piü tardi, dopo Ronsard. Erasmo, ch'io sappia, nominö Petrarca altre due volte oltre quella in cui lo citö insieme con Dante ;2)ed ambedue le volte lo pose alla testa dei restauratori della pura latinita. Nel „Ciceronianus," 1'arguta satira contro 1'esageratopurismo latino, satira che gl'italiani, con tanto dolore di Erasmo, presero si in mala parte, Bulephorus dice:3) „L'eloquenza che secoli addietro pareva interamente sepolta, rinacque da poco in Italia, e oltre le Alpi piü tardi ancora. Cosi vedesi in Italia il primo rifioriredel1'eloquenza in Francesco Petrarca, celebre e grande nella sua eta: oggi egli corre in pochissime mani: ebbe nondimeno un'ar- ') Apophthegmatum lib. VTII, Opera L. B. IV, 363 E. Cfr. Ep. n. 1292 L. B. c. 1515 E. ItalicenoninteUigo"(15dlc. 1535).Vedi anche P. de Nolhac, „Erasme en Italië", p. 20.47. *) Nell'indice manca il luogo Ep. L. B. 1284 c. 1507 B; forse ce ne saranno degli altri. 3) Opera L.B.I.c 1908 E dente intelligenza, una grande conoscenza delle cosee unaeloquenza non mediocre". A cuiNosoponus, ilfanatico delciceronianismo, risponde: „Convengo. Ma in lui manca qua e la 1'esperienza della lingua latina, e 1'intera sua dizione risente degli orrori dei secoli passati". E'lastessa awersioneperl'esagerato purismo latino, qui sopra schernito e biasimato, che Erasmo esprime nella grave e in pari tempo commovente lettera del 18 agosto 1535 a Damiano a Goes.1) Egli brama la morte. I tempi, purtroppo, non sono felici. Piü ormai non lo seduce illavoro di lima e rifinitura dei suoi scritti latini. Le esigenze dello stile latino, dice egh, devono talvolta cedere di fronte alle esigenze degli alti intenti della religione. Anche in molti italiani manca quella accurata raffinatezza della lingua (illa ad unguem exacta polities), ed egli, Erasmo, cita a tale proposito Petrarca, Poggio, Guarino, Filelfo, Leonardo e Francesco Aretino e molti altri „che noi tutti di buon grado leggiamo, scusandone gli errori." Non possiamo negarlo: Erasmo considerava Dante e Petrarca come i primi umanisti e di loro lesse tutt'al piü qualche cosa dei loro scritti latini. Nonpuó quindi aver pensato a Chaucer e ai suoi compagni. Ma chi sono allora quegli inglesi che Erasmo non nomina e il cui valore pel loro popoio egli equiparava al valore di Dante e di Petrarca per 1'Italia, e la lettura delle cui opere tanto contribuï a raffinare la lingua di Colet ? Non possono essere che quei pochi pionieri dell'umanesimo in Inghilterra, i quali, da quella stessa Oxford ove Erasmo incontrö Colet, recavansi mezzo secoio prima in Italia, per ivi impadronirsi della lingua greca e conoscere eimparareilrinnovato spirito di coltura. I loro nomi non sono molto noti: Wüliam Grey, vescovo di Ely, John Free e John Gunthorpe, andati in Italia a spese del primo, Robert Flemming, Wüliam TillydiSelling. Quasi tutti videro a Ferrara il Guarino e frequentarono gli ambienti dei noti umanisti. Free, Gunthorpe e Flemming scrissero in latino lettere, poesie e orazioni; questi devono quindi essere stati gli scritti che Colet lesse. Erasmo mai e in nessun luogo cita i loro nomi, ma ne avra forse sentito parlare da Grocyn e da Linacre che li conoscevano. La traduzionelatinadell'Elogio della Calvizie (De laude calvitii) di Sinesio da Cirene, fatta dal l) Ep.L.B.n. 1284 c. 1507 B. Free, fu edita a Basilea nel 1519 insieme conl'Elogio dellaPazzia (Encomium Moriae sive Declamatio in laudem stultitiae). Furon dessi quindi i primi uomini, grazie ai quali Erasmo tributo all'Inghilterra 1' elogio: „His temporibus Italiam habet Anglia".1) Eppure, noi non possiamo non chiederci titubanti alquanto, se furon proprio questi gli uomini che in Inghilterra fecero quello che Dante e Petrarca fecero in Italia. Noipropendiamoinvece a credere che persino i suoi amici inglesi non avrebberoaccettato 1'ardita affermazione di Erasmo, dato ch'egli abbia reaimente inteso di esprimersi in tal senso. Per essi il loro passato nazionale valeva ben piü che non per il cosmopolita Erasmo. E torniamo all'argomento. Prima Erasmo paria dei legisti e storiografi inglesi, studiati da Colet, poi di quelli, che non nomina, sui quali il Colet stesso formö la sua lingua per diffonder e la parola del Vangelo. Nonpotrebbe anche darsi, flnalmente, che avesse pensato alle predicazioni in'inglese? Qui giova citareun argomento di notevole importanza. Erasmo vide nei sermoni il meglio dell'opera del suo amico. „L'essenzialeinluistavainciö, che aveva attinto la pura filosofia di Cristo (sinceram Christi philosophiam) alle purissime fonti del Vangelo onde impartirla gratuitamente al popoio". Erasmo giuoca un po' col nome di Colet perfarloderivare da Koheleth che in ebraico significa predicatore.2)„Tirinnovo le mie congratulazioni" scrive egli il 31 ottobre 1513 all'amico suo Colet 3)„per essertu ritornato al santo e salutifero ufficio del predicatore. Ed io credo che la breve tregua ti avra giovato, poichè piü avidamente tisiascoltera ora che da qualche tempo desideravasi udir la tua voce." E' cosi evidente che Erasmo quinonpensiaffatto a una dotta esegesi per un uditorio versato nella teologia, ma sibbene al semplice sermone per il popoio e nella lingua del popoio, che per noi questi passi hanno importanza decisamenteconclusiva. La lettura dei vecchi inglesi, che raffinö la lingua di Colet non puö essere che la lettura delle opere di Chaucer e dei suoi compagni. E sono appunto dessi che Erasmo, e a ragione secondo *) A Reuchlin, 27 agosto 1516. Allen n. 457 (II p. 331); in L. B. manca. 2) Ep. L.B. n. 523 c. 571, a Tommaso Lupset, 23 agosto 1520. *) Allen n. 278 (lp. 536). In L.B. n. 107 con la data erronea 1 novembre 1507. 2 noi, equipara a Dante e a Petrarca, anche ammettendo, come par certo, ch'egli ignorasse le loro opere come ignorava la „Divina Commedia" e le „Rime." Puö darsi che egli abbia udito i nomi dei poeti inglesi da John Skelton, „poeta laureatus'' di Oxford e di Lovanio, da lui stesso salutato quale „unum Britannicarum litterarum lumen ac decus".1) Infatti, Skelton fu un fervente ammiratore di Chaucer e di Lydgate, suoi predecessori. Comunque sia, Erasmo, piü o meno contro i propri concetti, ha quindi, sia pure vagamente, compreso che rimportanza di Dante e Petrarca era da ricercarsi nella loro grandiosa opera poëtica pur non potendo egli goderla. Che abbia letto Erasmo delle opere latine di Dante? Ne dubito. La „Monarchia" meglio rispondeva all'indole del rotterdamese, 1'amico della pace; ma non mi fu possibile rintracciare nessuna testimonianza della conoscenza sua dell'opera dantesca. In tal modo 1'importanza di quell'unico passo, in cui Erasmo cita Dante, si riduce forse alle modeste proporzioni di un puro volo lirico, bastevole tuttavia a fermare un istante la nostra attenzione, giacchè, con tutta probabilita, è questa la prima volta che, nella letteratura, un olandese menziona il grande italiano, J. HUIZINGA *) Nella prefazione dell' ode all'Inghilterra Prosopopoeia Brltannie Maiorls etc. (1^99)» all' allievo dl Skelton, il giovane principe Enriccpiü tardi Bnrico VIII. Allen n, 104 (I, p. 239); la poesia stessa in Opera L.B. 1,1215. DANTE E VONDEL Ce è vero che alcuni studiosihanposto sovente 1'unoaccanto ^aH'altro i due grandi nomi, Dante e Vondel1)» è pure vero che nessuno finora ha trattato del rapporto in cui trovavasi il nostro massimo poeta col sommo poeta italiano. Soltanto il Dr. A. S. Kok si senti una volta tentato dal seducente argomento: nel 1867 tenne egli, infatti, al IX Congresso Nazionale di Letteratura a Gand, una conferenza su Vondel e Dante, ch'egli stesso intitolö: „Un insignificante abbozzo diunimportante soggetto". Le considerazioni addottedalKoknonattirarono, a quanto pare, troppo 1'attenzione degli studiosi, e.ch'io mi sappia, nessuno piü dopo di lui, trattö il tema. Si direbbe quasi che a priori il mondo intellettualeneghiognirelazionetra i due grandi poeti. Vondel, è noto, non nomina mai, nelle sue opere, 1'Alighieri, dal quale, dicesi, differisce profondamente nello spirito. Ma io mi domando: è perciö risolto il problema? A ragione il Dr. Brom, nella sua tesi di laurea, ha affermato che non è affatto comprovata, nè comprovabile in Vondel una ignoranza di Dante. Anzi a me piace qui insistere appunto nel fatto che rAlighieri non fu, come si è finora creduto, cosi messo in non cale dal nostro poeta del secoio XVII. Dante, il quale faceva mostra di sè non solo negli scaffiali della biblioteca di Marnix, ma anche nell'opera di questi intitolata „Bijenkorf" (L'Alveare), Dante, ammirato dal Latomus, citato a piü riprese da Junius, imitato dal Van der Noot e dal Van Mander, Dante, ripeto, fu ricordato pure da Hooft, Huygens, Van der Burght, Brandt, De Brune, Goddaeus, Westerbaen, Vos e da varie traduzioni dall'italiano in olandese del secoio XVII. E' probabile che Vondel abbia conosciuto Shakespeare e ne abbia imitato, nei sonetti, le forme: eppure egli mai cita il ') Joost van den Vondel (1587-1679). - Studio tolto da un volume dell'autore che reca per titolo: „Da Dante a Vondel". grande inglese; è certo che Vondel pei suoi „Altaargeheimenissen" (Segreti d'Altare) parecchio teologicamente attinse da Bellarminus citato soltanto nel „Grotius' Testament" (IlTestamento di Grozio): dunque nell'opera di un altro. A noi son note le fonti delle opere vondeliane: „ Gij sbr echt, Leeuwendalers, Lucifer, Adam, Zunchin, Bespiegelingen, Heerlijkheid der Kerke", ecc. ecc.; eppure, sta indiscutibile il fatto che egli, Vondel, parlando come soleva di opere altrui consultate, non fece alcuna menzione, o solo appena accennava, di molti scrittori che egli, aiutato da una tenace memoria, perfettamente conosceva e delle cui opere largamente si valse. Non devesi quindi interpretare il silenzio di Vondel per Dante come una ignoranza sua del Sommo Fiorentino.Tutt'al piü potremo riscontrare in tale silenzio una prova che il nostro poeta non fosse proprio un fanatico adoratore dell'Alighieri. Di ciö non dobbiamo ricercare le cause nello spirito del tempo, spirito spiccatamente barocco e antimedioevale. L'arte del Vondel fu pure essa arte barocca, come ebbe a dimostrare, senza perö considerar tutta nel suo complesso 1'opera del poeta, Schmidt-Degener (Rembrandt e Vondel in „De Gids", febbraio 1919). E in quanto detta arte rispondeva, nei suoi element! barocchi, alle esigenze del tempo, Vondel fu esso pure antimedioevale. Egli, glorificando Erasmo, ha un bel parlare di „secoli tranquilli e quieti", e contro a un protestante, che lo sfidava tacciando d'impossibili miracoli tutte le leggende olandesi di santi, negava recisamente le „Favole di Monaci'' in quegli sciocchi tempi, scritte per un popoio ingenuo e sempliciotto. A giudicarlo dall'esteriorita è, Vondel, unuomointeramente della Rinascenza; egli è rartista che ama 1'ampio gesto e lo pratica, e all'onda musicale della parola sacrifica ben volontieri ogni sobrieta e ogni giusto lünite della forma. Ma, oltre questo Vondel che chiameremo della moda, un altro ne esiste di molto migliore. Sotto gli abbondanti ricami e fronzoli, sotto i vacui arabeschi del secoio olandese XVII ascondesi un Vondel che si sente attratto alle „Favole dei Monaci", e ai „secoli tranquilli e quieti" ben piü di quanto 1'altro Vondel, il poeta dell'esteriorita, non dimostri di capire e di ammettere. Nel nostro massimo poeta noi vediamo infatti un'anima medioevale in un corpo della Rinascenza; una sostanza di misticismo ravvolta in una veste barocca. Se esternamente la sua forma smagliante ci affascina, daU'interno, quella sottile nostalgia pel cielo, ci commuove 1'animo. Quale pia risonanza medioevale, quale mistica allegorianon incontransi in molti fra i suoi primi canti religiosi, spesso elaborati a imitazione delle laudi antiche e migliori. Cosi nella maggior parte dei suoi Canti di Natale („Kerstliederen"); in „Gijsbrecht", „Peter en Pauwels", in „Maagden" (Le Vergini), in „Altaargeheimenissen" (Segreti d'altare), in „Christelijk Vrijagelied" (Canti d'amore Cristiano) e nel suo „Lofzang van den Christelijken Ridder" (Ode del cavaliere cristiano)! Qual fascino, quale entusiasmo non suscitarono in lui i Santi Padri, e piü che tutti i mistici Lattanzio e Bernardo I Quanto non ammirava egli, Vondel, il Poverello di Assisi e Santa Chiara, e con che ardore non si approfondi nelle „parole oscure" (oscure per Brandt I) del grande Aquinate! Chi piü di Vondel amö la poesia del „parallelismo" ? Chi meglio di lui moströ di capire la storia come segno e come simbolo? Infine, nessuno meglio di lui concepi comel'uomopossaedebbapenetrare dal terreno dei visibilia nei campidegliinvisibilia. Se spiriti coscienti piü moderni, come Coornhert e Hooft, presentano una qualche fisionomia medioevale, perchè dovremmo noi sorprenderci di quel notevole aspetto medioevale che ci ofire 1'artistica umanita di Vondel, la quale ognora cerca contatto cogli spiriti dei trapassati e la quale ci presenta gli spiriti pure nei canti nuziali? Tanto per Vondel, quanto per quelli del medioevo, tutta la mitologia pagana altro non era se non un simbolo del Vangelo cristiano, cosi che egli, Vondel, non soltanto usa metri virgiliani e ovidiani per personaggi ecclesiastici, ma fonde altresi in idee differenti, paganesimo e cristianesimo (per es. manna e nettare) ed esprime talora concetti cristiani con terminipagani, oppure concetti pagani con termini cristiani („la grazia e gli angeli di Venere"; „Cristo m Imeneo"; l'01impo=il „Regno dei Cieli", ecc). Tutto ciö puö significare in Vondel conflitti del medioevale con 1'umanista. Puö forse anche significare una specie di conciliazione tra i due e ciö secondo costumanze, non solo del rinascimento, ma benanco del medioevo, le quali citano alternativamente, e in confuso, sempre perö in buona fede, santita e profanita, usatespessocomequiproquo. Chi piü di Dante ne è luminoso esempio? di Dante col suo simbolismo e allegorismo? di Dante, il quale si valse dell'intera mitologia per la sua teologia cristiana profondamente ortodossa? Non ci troviamo qui dinanzi a un aspetto dell'anima dantesca, che agevolmente si adatterebbe al Vondel medioevale e allegorico? Se Vondel avesse potuto udire Busken Huet affermare che in Dante tutti i personaggi cristiani hanno gia il loro corrispondente o in Grecia o in Roma, e che la sua teologia biblica procédé parallelamente alla sua teologia mitologica; che per Dante la glorificazione del classicismo culmina in Virgilio e che il fiorentino vede gia esposta la storia del cristianesimo nella storia dell'Impero Romano; se Vondel, ripeto, avesse udito Busken Huet esporre la lunga litania di tutte queste caratteristische dell'Alighieri, avrebbe potuto rispondere con San Paolo il suo et ego; giacchè, questo aspetto caratteristico di Dante corrisponde in tutto e per tutto all'aspetto caratteristico di Vondel. Cosi pure nella sua aspirazione a intenti morali il poeta olandese del secoio XVII non differ isce in nulla dal poeta italiano del secoio XIII: ambedue, infatti, dettano le loro opere maggiori esplicitamente a profltto etico dell'umanita. Se Dante a tale scopo si vale della politica del tempo suo, Vondel fa altrettanto nella maggior parte delle sue poesie in-politiche. Dante è un audace tribuno, un uomo di parte, che lancia apertamente le sue piü acerbe critiche, e di velarle comunque non si cura, nè lascia in pace le sue vit time. Tale indole gli valse la gravecondanna d'esilio. Anche Vondel, che fin dallasuagioventü,prese activa parte alle lotte religiose e politiche, manifestando apertamente il color suo e in questo e in quel campo, come Dante, nulla celö, nè tacque, nulla mitigö; talchè, lui pure, per le idee che coraggiosamente propugnava e per le persone che prendeva a difendere, aftrontó, non meno fieramente dell'Alighieri, condanne e persecuzioni. Vondel e Dante non erano soltanto poeti — i sommi poeti della loro patria, che seppero riplasmare in artistica movenza e limpida forma una lingua dianzi rigida e informe, cosi da poter esprimere in Italia con 1'italiano, in Olanda con 1'olandese quello che, prima, nessun idioma, all'infuori del latino, avea mai potuto esprimere con la parola e col canto — ma erano ambedue, caratteri, nature indipendenti, pur presentando tra loro piü o men lievi differenze. Se 1'universale Dante abbraccia va tutta la scienza del tempo suo e a piacimento se ne valeva ai fini dell'opera sua poëtica, 1'autodidatta Vondel, in ciö di poco gli è inferiore; anch'egli sapea volgere ai bisogni della sua poesia la politica, 1'astronomia, la filosofia, la teologia, le scienze esatte. Dante ammette delle guide e Vondel non meno. Con tutta 1'alta loro originalita, che hanno in comune, sanno ambedue 1'arte di valersi di ciö che è noto, di ciö che esiste per presentare 1'antico come nuovo e lo strano come qualcosa di proprio. Ambedue riconoscono le autorité altrui nel terreno sul quale essi si sentono profani: ambedue mostransi figli mansueti e ubbidienti della Santa Madre Chiesa, che tanto altamente onorarono nell'opere loro. I due laici, Dante e Vondel, provano, nel modo piü convincente, che un chiaro, giusto e acuto concetto della sacra teologia non è affatto un monopolio di preti e di frati. A quale religioso suscitö mai la lingua materna entusiasmi per la Divinita o la visio beata come a Dante in Italia e a Vondel in Olanda? La dedica di Vondel a Maria puö stare ottimamente accanto alTinno che Dante innalza alla Ver gine. Tanto il poeta italiano, quanto il poeta olandese hanno attinto la loro teologia alle fonti piü nobili e pure, traendone le alte loro ispirazioni. L'uno e 1'altro esplorarono, scrutarono tutto 1'infinito campo; e Dante non ha meglio udito i suoi angeli, nè spiato i suoi demoni, di quanto non abbia fatto il poeta di „Lucifer" e di „Johannes de Boetgezant". Ambedue, per 1'innata tendenza musicale, nei momenti di comune melanconia, chiedon sollievo alle dolci note, e in una chiara comunanza, quasi direi uguaglianza di spirito, concepiscono la musica delle sfere celesti, il simbolismo dello zodiaco e del sistema solare, la conflgurazione del regno infernale. E cosi vasto è il loro sguardo sulla terra e nei cieli che, ove il capolavoro dell'italiano a ragione è detto la „Divina Commedia", uno dei capolavori di Vondel — „Bespiegelingen" (Meditazioni) — con non meno ragione puö dire di rappresentare la divina commedia dell'universo. „Si è ripetutamente comparato" dice padre Van Hoogstraten O. P. „Vondel a Milton, e in verita non si possono negare i molti punti di concordanza che i due poeti presentano. Ma piü ancora che al grande inglese il nostro massimo poeta mostra una non dubbia comunanza di spirito con 1'autore della Divina Commedia. La rivelazione divina, custodita e sigillata nella chiesa di Cristo, è tanto per Vondel, quanto per Dante il vero e proprio pensiero umano della poesia. Tutti e due i poeti cantano le verita della fede: Dante con una impareggiabile potenza di creazione, Vondel con si alto entusiasmo che dal1'anima sua sgorgano inni, i quali, attraverso i secoli, riscalderanno i cuori di sacro amore". Tutto ciö che siamo venuti fin qui esponendo mostra una non lieve parentela di spirito fra i due poeti Dante e Vondel. L'intimo, il piü ascoso Vondel, il Vondel medioevale, deve essersi sentito suo malgrado avvinto da un poeta, da un italiano, che con lui aveva tanto comuni le piü intime simpatie. Si, suo malgrado, giacchè noi ci renderemmo troppo facile il quesito, se di fronte a tanti e si chiari punti di contatto fra i due poeti, perdessimo di vista le diflerenze che li separano, differenze pur sempre grandi che s'incontrano tra 1'Alighieri del medioevo e il Vondel della rinascenza. Infatti, per quanto medioevale nell'intimo suo Vondel ci appaia, mostraci egli nel" 1'aspetto esteriore il vero poeta del secoio XVII, che si compiace delle forme piene e che rifugge dalle severe e precise linee gotiche, come non concepisce i sobri e contenuti colori di un affresco, ma sibbene sente il bisogno di valersidi vistosita e di schier e d'angeli in nubi marmoree, cinte di aurèole di legno; e piacesi il poeta a contemplare i grassi colori di Rubens e le seducenti creature tizianesche. Se i suoi principi sul barocco gl'impedivano di apprezzare il misticismo di Rembrandt, tali suoi concetti devono pure avergli impedito di godere pienamente 1'Alighieri. Giacchè, tanto è Dante nella forma sobrio, quanto è Vondel pieno, direi quasi ridondante. Ciö che il primo scolpisce conciso, ispira al secondo un largo torrente digiambi di sei piedi. Se la legge per Dante pare sia: „Paria e sü breve e arguto" e se questa la troviamo ripetuta in Vondel ove dice che „lo stile deve essere proprio e piuttosto un po' corto che pietosamente lungo („AanleidingeNederlandsche Dichtkunst" — Introduzione alla poesia neerlandese), il poeta olandese nella pratica diventa esagerato, 1'italiano rimane contenuto. Spesso nell'Alighieri siamo tentati di riscontrare il timore continuo di impiegar troppe parole, mentre in Vondel ci par di sentire un'oppostapreoccupazione. Ove il primo procédé grave sul misurato e fisso ritmo delle sue pre-concepite terzine, il secondo si lascia travolgere daü'onda del suo estro poetico, daU'ünpetuosita, e ritorna tranquillo e quieto sol quando ha versato nella poesia tutta la piena dell'anima sua. Inoltre, leaspirazioni politiche dell'arcighibellino Dante non eran certo quelle del cattolico a qualunque costo Vondel. E'bensï vero che, come il primo sentivasi chiamato a rivolgere unappellodipace a tutti i principi italiani, il secondo (in „Lucifer") non solo salutava nell'imperatore Ferdinando III il restauratore della pace europea, ma nel 1620 inviava audacemente un sonetto agli „Imperatori, ai Re e a tutti i potenti della terra" — ciö che, come in Dante, fa supporre in Vondel la coscienza d'Una missione nel mondo. Ma le differenze sono maggiori. II problema della chiave d'oro e di argento come 1'ha sciolto 1'autore di De Monarchia, nel secoio XVII non era certo cosi acuto; ma ciö che Vondel aspettavasi dalla politica pontificia internazionale di quel tempo, vale a dire la convocazione di tutti i principi cristiani contro il nemico ereditario, il turco, pone il nostro poeta piuttosto contro che insieme con 1'Alighieri. E Vondel, poi, che con tanto rispetto paria non solo del papato, ma anche dei papi, avra giudicato per lo meno un po' troppo forti le condanne a papa Bonifacio VIII e a papa Celestino V, e le accuse contro 1'avarizia del clero. Ma è pur vero che nel secoio di Vondel le situazioni politiche e le persone eran tutt'altre che al tempo di Dante. Ciö potra pure spiegard il perchè 1'umile Vondel in generale scagliasi piü severamente contro la superbia, e il fier o Alighieri piü appassionatamente a wenta i suoi strali contro 1'avarizia; mentre poi ambedue sferzano senza piëta, e in modo geniale, 1'ipocrisiae la falsita.Fuvirtu dei tempi se le didascaliche del nostro poeta furon piü dogmatiche che non la Divina Commedia, la quale mirava a un fine etico diretto. Nel medioevo, invero, eranvi piüragioni per una critica interna, che per una apologia esterna; dopo la Riforma i termini si invertirono: epperciö, se Dante potevasi permettiereirimproveri anche contro i propri amici, Vondel doveva insorgere contro i propri nemici. E, ancora, se Vondel poteva rimanere indifferente dinanzi ai personaggi che Dante con la sua aspra critica personale cacciö nell'inferno, Dante, dal canto suo, se ne rimaneva freddo e indifferente dinanzi alle apologie della dottrina cattolica. La teologia che ci presenta Vondel è differente da quella che esce dalle opere di Dante. Ove questo elevasi sopra tutte le terminologie tecniche e le distinzioni scolastiche, e lanciasi con sicuro volo, come aquila, verso il sole, quello, Vondel, sentesi i piedi trattenuti da una dialettica sostanziosa, sobria e semplice. Tutti e due scrutano con occhio geniale le profondita dei misteri della nostra fede, ma ove Dante plasma i suoi concetti in una radiosa fantasia, Vondel lima, ripulisce il suo soggetto, e la sua allegoria è dimostrazione. Chi dei due sia meglio conoscitore della Bibbia, e dei Santi Padri, il piü scolastico, è difficile dire: ma appare ben chiaro chel'impetuosofiorentino sa trasfonder e in versi dipuralucelecognizioniattinte a quelle fonti, meglio che non faccia lo studioso e diligente olandese, il quale segue decisamente 1'Aquinate e Bellarminus, tanto che talvolta, salvo la rima, ne riporta letteralmente la lezione. Se noi consideriamo la Divina Commedia come un poema didascalico e le poniamo daccanto „Altaargeheimenissen' 'e „Bespiegelingen", in queste due ultime opere piü chiara ci suona la didalisca, nella Divina Commedia invece la poesia* V'ha dunque un notevole divario fra Dante eVondel; nessuno puö dubitarne. Sono essi poeti di diversa natura, di altri tempi, di differenti paesi. Come uomini hanno ambedue illoro proprio atteggiamento, come artisti il loro proprio stile. Vondel sentivasi nella didascalica, che poi divenne lirica, meno forte che non nel dramma. Dante mai scrisse pel teatro.purintitolandosiil suo capolavoro „Commedia." L'erotico del cantor di „Vita Nuova" mostra in generale un carattere umano, e, anche astrazion fatta dalla persona di Beatrice, rimane per tutti unpurofascino. I canti nuziali di Vondel si perdono spesso in dettagli che non possono interessare la generalita dei letton. Ora, in complesso, possiam dire che, sotto molti aspetti, Vondel ce lo sentiamo piü vicino e Dante piü lontano; ciö puö significare per ambedue una lode, o non, a seconda del modo con cui ci spieghiamo un tal fatto. Ma noi meglio faremo se invece di tener fisso lo sguardo a tali punti di divario, ricercheremo quanto nei due poeti vi sia di comune e che li ravvicini. Gia in Virgilio, questi due convinti virgilianisisone dovuti incontrare. Nessun poeta ha mai posto in pratica piü sinceramente e piü fedelmente di Vondel e di Dante, 1' „Onorate 1' Altissimo Poeta," con cui 1'Alighieri fa rendere il saluto al cantore classico. Per ambedue Virgilio è „il poeta" per eccellenza (vedi neü" Inf erno di Dante e nella dedica a Huygens del Virgilio in prosa di Vondel) come suona nel saluto di Dante. O degli altri poeti onore e lume, Vagliami il lungo studio e il grande amore Che m'ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se' lo mio maestro e il mio autore: Tu se' solo colui, da cui io tolsi Lo bello stile che m'ha fatto onore. Ugual saluto poteva porgere, come infatti lo porse, anche Vondel, con 1'esordio solenne e grave della sua liricaa Virgilio Mar one: Hier streeft de Zwaan, Augustus' Hofzwaan henen, En strijkt de schoonste lauwerkroon: Zijn brave zwier en hooge toon Verrukken mij. Mocht ik Stijn schachten leenen! (Ivi librasi il Cigno, il Cigno della Corte di Augusto, E del lauro piü bello ricingesi il capo: La fine sua grazia e gli altJ suoi accenti Incantanmi. Possa io rivestirne i vanni!) Si, „rivestirne i vanni"; dopo Dante nessun altro poeta li rivesti piü poeticamente di Vondel. Le sue estasi per il „Parnasheilig" (ü Santo del Parnaso) e la „Vieren van Sint Virgiliusdag" (Celebrazione del giorno di San Virgilio) che si chiaramente rispondono a quell'onor popolare che godeva nel medioevo il Mantovano, racchiudono in sè quel giuramento di fedelta, prestato da Dante alla sua guida nei regni d'oltretomba. Tu Duca, tu Signore, e tu Maestro, (Inf. II, 140) cosi Dante umilmente saluta Virgilio, nel quale riconosceva il piü alto rappresentante della ragione umana. E Vondel, che dice aver trovato nelle opere vkgiliane tutto loscibile, glorifica il sommo pagano qual „luce delle luci," qual „musica celeste" quale „cornucopia", e plaude al fatto che persino Padri della chiesa, come Sant'Agostino, si siano valsi del primo degli „antichi saggi pagani" per la diffusione del cristianesimo. Quando Virgilio, all'inizio del viaggio con Dante nel regno dei morti, dice al discepolo le note ed eloquenti parole: Io sarö primo, e tu sarai secondo, (Inf. IV, 15) noi vediamo con gli occhi deirimmaginativa il mantovano volgersi a Vondel e cosi parlare: „Se io, nel viaggio attraverso i regni oltremondani, fui primo e Dante secondo, ilterzo, o Vondel, sei tu!" B. H. MOLKENBOER O.P. COMMEMORANDO DANTE E'un onore per me poter collaborare dall' Olanda alla commemorazione di Dante Alighieri, il poeta che io, fin dalla mia gioventü, recai sempre dinanzi alla mente quale un fulgido esempio. Feci la mia prima conoscenza col grande nella biblioteca paterna. Quanto, e per quale lunga serie di anni, non m'awinse la grande edizione con le belle illustrazioni del Doré! Mio padre possede va inoltre la traduzione della Divina Commedia dello Streckfuss, la cui prefazione fece sorgere in me 1'idea di voltare in nostra lingua il sonetto: „Tanto gentile e tanto onesta pare'' che nel 1884 ispir ö il pennello di esimi pittori, come ne fa fedelarivista „Wedstrijd der Kunsten", che accolse in quelTanno la riproduzione dell'opera. Nel periodo in cui tui addetto alla Biblioteca di Amsterdam venni incaricato della compilazione del catalogo della ricchissima collezione di quel mercante-poeta che fu Potgieter. Dante e la letteratura italiana vi occupavano una ragguardevole parte. L'ode del Potgieter su Firenze, dotta, ma un po' rigida, la visita del nostro poeta alla capitale toscana e la partecipazione alle feste dantesche in compagnia col valente critico Busken Huet, tutto ciö, ed altro ancora, che ci rievoca Dante, tocco appena qui di sfuggita. In processo di tempo conobbi i vari traduttori olandesi dell'Alighieri, come Hacke van Mijnden, A. S. Kok e Joan Bohl, e con vera gioia potei constatare come, anche tra i nostri giovani letterati, lo studio di Dante andasse ognora piü divulgandosi e crescendo. Ma come potrebbe essere, del resto, altrimenti ? La giovane Olanda partecipa essa pure alla lotta intellettuale dei popoli, e in questa lotta Dante occupa sempre un posto d'onore. Certo perö che quel posto d'onore non esclude ogni critica. No: giacchè, pur scrivendo i grandi spiriti, sia pure un Dante, per tutti i tempi, rimangon perö essi stessi flgli del tempo loro. Noi specialmente, praticifreddicalcolatoriepensatori del nord, liberi pensatori in parte, potremo considerare forse Dante da un punto di vista diverso da quello degli ardenti italiani, figli di quel sud che nel suo bel sole e nel suo calore stimola la gaiezza e ispira il canto, quel sud con le suecerimoniereligiose che tanto differiscono dal freddoprotestantesimo. Noi dunque, nordici, spoglieremo, per cosi dire, Dante da tanto accessorio, da tanto misticismo che incontrasi nella sua grandiosa creazione, la quale, ahimè, (cosi è fatto, purtroppo, 1'uomo) a lato di tanti studi illustrativi veramente ottimi, vide sorgere intorno a sè molto di quel che Dante, certo, non ebbe mai in mente di dire. Noi invece cercheremo e apprezzeremo in Dante 1'umano, 1'umanita e il pensiero, 1'eter na poesia che nulla ha da fare con le confessioni mutevoli, col credo di una qualsiasi corporazione religiosa. Diremo insomma brevemente che noi nordici cercheremo in Dante il contenuto e le idee, mentre il figlio del sud si lascera anima e corpo travolgere dalle belle forme e dalle scorrevoli parole. Per dare un esempio, noi, che oggi meglio conosciamo Omero e i Greci, non possiamo acconsentire con Dante all'ufficio da questi assegnato a Virgilio, quale sua guida cioè, ufflcio che certo devesi spiegare con la grande venerazione di cui godeva nel medioevo il poeta latino, di cui si volle perfino fare un profeta del cristianesimo. Virgilio, cui Dante, che ne fece Tunica sua guida, dice: „Tu se' solo colui, da cu' io tolsi Lo bello stile che m'ha fatto onore," Virgilio, ripeto, piü non puö in tal veste aff ascinar ci, pur avendo anche noi grande ammirazione dei molti e bei passi contenuti nell'incompiuta sua epopea. Pur estraendo da quanto è qui dianzi detto, in Dante riscontransi piü che a sufficienza meriti tali da poterlo considerare come appartenerite, e per sempre, alla letteratura mondiale. Segnatamente la sua forma, la lingua e il suo verso costituiscono qualcosa che è e rimarra meraviglioso: è musica classica, accompagnata a musica poëtica, scritta in italiano. La mia lirica-epica Prometeo, composta tutta di terzine (Utrecht 1908) è, per cosi dire, una imitazione della Divina Commedia e del viaggio al Parnaso di Cervantes. Nell'ultimo canto io faccio entrare nelle celesti sale Dante, insieme con Eschilo, insieme con Goethe e con gli altri spiriti eroici, che il fiorentino canto nelle sue terzine immortali. II mondo poetico di Dante, la vita sua di esule, i suoi altissimi pensieri, la sua concisa, ma elegante e pittoresca maniera di descrizione, che ci fa pensare talvolta al nostro Rembrandt (si riflettaalcolorito nell'episodio di Francesca da Rimini), i suoi, spesso, liberi concetti sulla vita che ci richiamanonondiradoaGiordanoBruno, pur presentando con questi notevoli differenze, tutto ciö ha inciso nella mia propria vita e nei miei scritti una indelebile impronta. Un tale ininterrotto influsso puö solo emanare dai grandi, giacchè 1'opera dei mediocri è sempre, e in breve, travolta dal tempo. Ai nostri giorni, giorni di ricerche, di disordine, anche nel verso, anche nella poesia è d'uopo che i poeti e i pensatori, i pionieri, diremo, dei popoli, ricordino 1'esempio dell' Alighieri e degli altri grandi. E invero, egli, Dante, per la sublime poesia volle una lingua elevata, che non basasse su alcun dialetto, come a ragione dice Salverda de Grave; orbene, tale concetto si puö applicare d'altro canto pure alla lingua, pure alla forma del verso che non puö esserne separata, e cui non è lecito cantare ciö ch'è basso, ciö che è grossolano. La liberta del verso non deve mai degenerare in licenza. Ciö ch'è alto va rivestito di nobili forme: e tali forme ben pochi possiedono, mai certo la massa: essa, caso mai, vi dev'esser gradatamente guidata, istruita, preparata. Un omaggio a Dante, il solitario che fece „parte per se stesso", e che nel 1921 sara dal mondo intero commemorato con solennita, è in pari tempo un omaggio all'Italiaea una delle sue piü belle citta: Firenze. Chi non conosce quell'inno che Ugo Foscolo innalza alla citta del giglio, a Dante e a Petrarca nelTimmortale suo poema „I Sepolcri"? „Te beata, gridai, per le felici Aure pregne di vita, e pe'lavacri Che da'suoi gioghi a te versa Apennino! Lieta dell'aer tuo veste la Luna Di luce limpidissima i tuoi colli Per vendemmia festanti, e le convalli Popolate di case e d'oliveti Mille di fiori al ciel mandano incensi: E tu prima, Firenze, udivi il carme Che allegro 1'ira al Ghibellin fuggiasco, E tu i cari parenti e 1'idïoma Desti a quel dolce di Calliope labbro, Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma D'un velo candidissimo adornando, Rendea nel grembo a Venere Celeste:" O zalig — levensvol Florence! Gezegend uwe lucht en uwe stroomen, Die ruischen van der Apennijnen top. Verblijd door uwe geuren, kleedt de Maan Uw heuv'len in een waas van helder licht, Uw wingerdrijke heuv'len; en uw dalen, Bevolkt met huizen en olijvenbosschen, Verspreiden duizendvoudig bloemengeur. Gij hebt het eerst, Florence, 't lied gehoord, Dat Dante's toorn, des Ghibellijns, verzoette, Gij hebt Calliope's beminden zoon Zijn liefste ouders en zijn taal geschonken, Hem, die d' in Rome en Hellas naakten Amor Omhulde met den allerreinsten sluier Van u, o hemelsche godin der Min! Ora, ci si puö chiedere: Quale è mai stato il vero scopo che Dante si è prefisso creando quella strana eppur meravigliosa Commedia, si, meravigliosa, nonostante le molte disquisizioni teologiche deUaterza cantica? Molti vollerovedere nel Poema Sacro un omaggio d' amore a Beatrice; altri la storia della conversione di Dante; altri ancora una specie d'opera politica, nella quale il poeta dimostrava ai suoi concittadini quanto necessaria fosse 1'unita nazionale. Vi sonostatiperflnodiquelli che han voluto vedere in Dante un precursorediLutero, avendo egli talvolta assalito con veemenza i papi, e propugnato 1'intervento dell'imperatore. In tutto ciö una parte sola puö esservi di vero. La Divina Commedia contiene 1'apoteosi di Beatrice, contiene la puritlcazione del poeta medesimo, con- tiene pure la riforma politica e morale del secoio suo e della sua Patria; il Poema contiene infi'ne quasi tutto lo scibile, scienze e arti, del medioevo. Sono tutti questi punti quali raggi di uno stesso, di un unico Sole. „L'unité de conception dans cette epopée" disse bellamente Etienne „est la même que dans une „cathédrale gothique: elle se divise en perspectives diverses „dont chacune occupe assez 1 attention pour faire oublier les „autres." Con tale acuto giudizio del dottofrancesesullasacra epopea dantesca, giudizio che la parola mia non saprebbe certo meglio esprimere, faccio termine al breve mio scritto, modesto contributo alla commemorazione del Grande Italiano. H. C. MULLER 3 ADANTE Homeros zong van eedle Helena, Wier schoonheid menig volk aan Hades wijdde; Haar eerden vriend en vijand saam, Held Menelaos', Alexandros' ga. Maar Dante's dicht het eigen Lief verblijdde, Beatrix was haar heiige naam; Hij streefde 't Lief in stouter tochten na Dan Paris, dien het diepe meir geleidde. Dus werd zij 't licht van zijn Commedia En vlamt door 't honderdzangig raam, Daar zich om haar heel Dante's wereld reide, Bij wie die Grieksche schoonheid achtersta. Divina noemt zijn dicht de Faam, Die Liefst' en Zangers roem steeds verder breidde. AUGUST HEYTING INFLUENZA DI DANTE SULLE ODIERNE RAPPRESENTAZIONI DELLA VITA ULTRATERRENA Euscito, or non è molto, un libro che reca notizie dall'oltretomba, ottenute per le vie dello spiritismo. Ne è autore il reverendo G. Vale Owen, ministro della chiesa di un piccolo paesello, Orford, in Inghilterra '). La madre di lui, morta undici anni addietro, descrive dettagliatamentelanuovasuaesistenza e 1 'ambiente in cui vive in una delle piü basse sfere dell'oltretomba (sarebbero come le „regioni basse" del cielo), mentre un altro defunto, che si chiama Zabdiel, narra delle sfere superiori („regioni alte") ove egli si trova. Trattasidiunmondo ove tutto: uomini, fiori ed alberi, piü bello è che non sulla terra, ove gli uccelli piü pure note gorgheggiano, ove una musica soave riempie ogni cosa e ogni creatura di pace serena; le piü miti sfumature di suoni e di colori* compongono tale un ambiente che 1'uomo quaggiü non sipuöfigurare. Pur nonessendo gli abitatori del Cielo piü vincolati a una vita materiale, hanno perö un corpo reale; sono avvolti in ampie vesti, strette da cinture di fini metalli; le donne vanno ornate di pietre preziose, e la magnificenza degli abiti maggiormente cresce a seconda dell altaposizione dei beati nella gerarchia celeste. Essi abitano bellissimi palazzi, forniti di locali da bagno e di sale per musica. Passeggiano per ampie citta, lietamente adempiendo i compiti loro affidati. II lavoro che debbono eseguire è in perfetta concordanza con le attitudini loro: si prestano a coadiuvare i nuovi venuti ad assuefarsi al nuovo ambiente; se son gia saliti alle sfere superiori, scendono alle inferiori per prendervi e ricondurre in alto coloro che ne hanno i meriti; nutrono quei bambini che, nati-morti sulla terra, crescono e si fanno uomini ') Rev. G. Vale Owen. The Life bevond the Veil, I. (The Lowlands of Heaven), II. (The Highlands of Heaven). London, 1920. nel cielo; seguono poi lezioni di chi puö far loro da maestro. Per quanto stranamente questo ciélo, costruito sul modello della terra, possa commuovere il lettore, gli fara risognare volontieri il sogno di un mondo piü bello del nostro, di un mondo che non conosce nimicizie, e in cui, sotto rinfluenza di una soavissima musica, tutto, eranimatoel4nailimato,acquista sempre maggiore bellezza. E coloro che questa rappresentazione considerano, non come opera di ispirazione, ma come composta dall autore medesimo, sia pure in tutta buona fede e in una minore o maggiore esaltazione di spirito, non potranno non ricorrere col pensiero, a motivo di confronto, a un altra visione di sei secoli addietro. Che abbia studiato Dante 1'odierno autore inglese? Nonso. Nella prefazione il ministro di Orford è definito come il vero tipo del „clergyman", sollecito degli interessi del suo gregge, uomo piü pratico che sognatore. Riuscirebbe di speciale interesse conoscere la sua educazione scientifica, onde scoprire quali influssi letterari abbiano potuto far presanello spirito suo. Ciö che di meglio intanto noi possiam fare, si è di porre a confronto col cielo di Dante il cielo di Vale Owen e registrarne i divarï e le somiglianze. Dobbiamo perö proceder cauti e non tacciare troppo facilmente di imitazione o di plagio ogni coincidenza che incontreremo. Se noi, uomini viventi, intendiamo e cerchiamo di farci un concetto di un mondo differente dal nostro, è giocoforza che ci vagliamo non solo di quei dati che lambiente in cui viviamo ci offre, ma benanco dell'ausilio della nostraimmaginativa. Tutte le rappresentazioni mistiche mostrano tratti, lineamentisimili; luce, colori, suoni.ecco i mezzi esteriori di cui ci si deve valere. Ma se da un lato è consigliabile una grande cauteladiprocedimento, io credo perö che, dall'altro.un parallelo tra il cielo del ministro di Orford e quello del grande norentino potra sortire un esito degno d'attirar 1'attenzione degli studiosi. Grandissime sono le differenze. Mentre 1'Alighieri è portato vivente su nel cielo, la madre del reverendo anglicano e gli altri spiriti che conducono la penna di lui, sono abitatori stabili del cielo. E qui ci sorprende poi tanto piü il fatto che presso f inglese lesituazioninell'oltretomba sono ben piü antropomorfe di quel che non sieno in Dante. E' noto che questi considera lerappresentazioniumane nel suo cielo come mezzi atti a farci comprendere le veresituazioni e gli aspetti della sua visione: Cosi parlar conviensi al vostro ingegno, Perö che solo da sensato apprende Ciö che fa poscia d'intelletto degno (Par., IV, 40). Nell'opera invece „The Life beyond the Veil" del ministro inglese, il cielo è una terra resa perfecta (I, 109)'), come è il Paradiso che Dante pone sulla cima del monte del Purgatorio; vi si vive invero la stessa esistenza vissuta quaggiü. Entriamo un po' nei particolari. Nella decima alta sfera, come pure nelle sfere inferiori, incontransi grandi edifici, nei quali gli abitatori celesti compiono i loro lavori. Sonvi anche scuole e universica, ufflci anche, e proprio di quelle vastissime dimensioni che noi viventi giè conosciamo. Quelle moli hanno fino a cinque piani; sopra il tetto trovansi quei beati che accolgono i messaggi provenienti dalle altre sfere, messaggi che trasmettono poscia ai piani sottostanti (II, 203).Gli abitatori di differenti regioni si scambiano di quando in quando delle visite. Cosi la madre del ministro ci paria d'un incontro di una compagnia di beati, i quali da altra sfera son venuti a visitarela sua „colonia": „Livedemmovenire attraverso lo spazio, e una parte dei nostri si innalzö per 1'aria onde recarsi loro incontro. E allorquando le due schiere si son alquanto awicinate, i compagni rimasti lanciarono loro il benvenuto, con forte clangore d'istrumenti che somigliavano a corni. Soscarono poi tutti, e dietro essi noi allora scorgemmo un carro tirato da due cavalli, simile in tutto a un carro come usavasi sulla terra nella remota antichita. Non v'ha ragione alcuna perchè noi non dobbiamo valerci di veicoli di piü moderno modello, ma ogni riparo è inutile; gli antichi plaustri, aperti, ci sono rimasti fino al giorno d'oggi" (I, 141). Notevoli son pure due altre differenze. In primo luogo, nel *) Giova, è vero, notare che i corrispondenti celesti si scusano di non poters! rendere comprensibli, costretti come sono a valersi di una „lingua terrena" (fra altro I, 34). cielo dell'inglese mancano assolutamente le rievocazioni alla terra, mentre esse son cosi numerose nel Paradiso di Dante; gli spiriti attendono tutti alle loro occupazioni, e ben pochi soltanto possono mettersi a contatto con la terra e anche questi solo in qualita di stranieri, o meglio di straniati alla terra. Devesi poi notare che la descrizione inglese è quella di un protestante, mentre la descrizione italiana è di un credente cattolico; il dogma nella prima non svolge la minima parte. Eppure, malgrado tali divari, in molti punti le due rappresentazioni si somigliano, coincidono direi quasi. Dirö anzitutto che e nell'una e neU'altra opera le descrizioni si alternano agli episodi. In quanto ah"Alighieri, torna quasi inutile ricordare la sua arte meravigliosa nell apportare le piü smaglianti variazioni al racconto del suo viaggio tra i cieli; i numerosi incontri gli offrono propizia 1'occasione di evitare ogni monotonia nel discorso. Ciö non fu possibile nel cielo dell'inglese. I suoi abitatori sono, in certa guisa, spogli d'ogni pensiero terrestre, e tutti, almeno interiormente, affatto identici, giacchè non sono ammessi nella loro sfera se non quando hanno raggiunto un determinato grado di perfezione. Nondimeno la loro esistenza è molto attiva, quantunque piuttosto tediosa. Disimpegnano le mansioni loro imposte.le quali, come dianzi dicemmo, comprendono pure la nutrizione di bambini nati-morti sulla terra (I, 105) — e qui il nostro pensiero va ai bambini che, in Dante, sono assuntineU'Empireo(Par., XXXII, 58) — mansioni alternate da visite d'ispezione e, diremo, da visite d'etichetta; ciö che forma, oltre che le loro visioni, i loro unici svaghi. Le sfere circondano, come nella Divina Commedia, la terra, ma il sistema è piü amplincato: non solo la terra, ma anche i pianeti hanno i loro cerchi (I, 176); 1'estrema sfera esterna della terra trovasi a contatto colla parte piü esterna del prossimo pianeta e vi si compenetra. Cosi avviene pure delle sfere di stelle poste al di fuori del sistema solare, e alla fine ne risulta che le esterne tutte si toccano formando in tal guisa un insieme infinito: 1'uni verso. L'oltretomba dantesco consta di tre regni; il racconto inglese invece paria solo del cielo. Dobbiamo notare perö che vi si paria anche di una „terra o vaüeoscura" —■ ciö che ci fa pensare all'Inferno — nella quale vivono coloro che „non amarono nè il bene, nè il bello" (II, 87). Vi scorre un flume tenebroso, le cui acque sono sudice e bollenti (I, 131); esso ci ricorda lo Stige e il Flegetonte dell'Alighieri. Adifferenza deidannatidell'inferno dantesco quelli della „terra o valle oscura" possono essere assunti al cielo. I beati gia insediati nel cielo si prestano in pro' degli infelici, i quali, „purificati dal dolore", invocano la luce. Ma la redenzione non si conseguisce senza lotta: gli „angeli delle tenebre" non intendono lasciarseli sfuggire, mentre „gli angeli della luce" sono allora costretti a combattere (I, 93). Per la configurazione esterna delToltretomba aggiungeremo che se, in Dante, del Paradiso terrestre, leggesi: ... la campagna santa Ove tu se', d'ogni semenza ê piena, B frutto ha in sè che di la non si schianta. (Purg., XXVIII, 118), il cielo, visto dall'inglese per vie spiritistiche, mostracipianteche la terra non ci mostra, ed ogni sfera ha lapropriaflora(II, 154). Assunti che sono nelle sfere dei beati, gli spiriti imprendono la loro ascensione. Dante fu egli pure uno degli eletti, ed egli stesso ben lo sapeva: Se tu segui tua stella, Non puoi fallire al glorioso porto (Inf., XV, 55), gli dice Brunetto Latini, e Beatrice: La chiesa militante alcun figliuolo Non ha con piü speranza, (Par., XXV, 52). Parimente la madre dell'inglese racconta dei complimenti che le vengon prodigati per i progressi da lei conseguiti, e degli incarichi lusinghieri che le vengon affidati (I, 119), e Zabdiel, il messaggero della decima sfera, descrive la solennita di una cerimonia, nella quale alcuni beati, tra cui trovasi egli stesso, sono promossi a un rango superiore (II, 250). V'ha certo al~ cunchè di ingenuo in quelle testimonianze di modestia e di umilta che accompagnano il racconto di questa distinzione, ma ciö non ci impedisce di scorgere chiaramente quanto gli eletti s'ihsuperbiscano per tanto favore. Di sfera in sfera la luce si fa sempre piü fulgida e chiara. Gli abitatori d'una sfera inferiore non possono sopportare la luce d'una piü alta sfera. „II bagliore della vostra sfera mi darebbe le vertigini e renderebbe il piede mio incerto" (II, 162). I beati delle sfere alte irradiano una luce che va assumendo continuamente piü grande fulgore e piü grande bellezza a manoa mano che gli spiriti ascendono. Chi non pensa qui a versi del Paradiso dantesco come i seguenti: .... per la vista che s avvalorava In me (Par., XXXIII, 112)? La luce cheemana da Cristo non puö essere da Dante sopportata: E per la vi va luce trasparea La lucente sustanzia canto, chiara Nel viso mio, che non la sostenea (Par., XXIII, 31); nell'Empireo 1'occhio umano non puö contemplare Dio: Indi all'eterno lume si drizzaro, Nel qual non si de' creder che s'invii Per creatura 1'occhio tanto chiaro (Par., XXXIII, 43). E ricordiamo parimenti come la bellezza di Beatrice si fa sempre piü fulgida awicinandosi a Dio: Io non m'accorsi del salire in ella; Ma d'esservi entro mi fe' assai fede La donna mia, ch'io vidi far piü bella (Par., VIII, 13). Come nella Divina Commedia tanto Virgilio, quanto Beatrice e i Santi conoscono i pensieri di Dante giè prima che questi li esprima (Inf., X, 18; Par., XV, 71), cosi pure nella descrizione del Reverendo Vale Owen noi vediamochealuinonfad'uopo rivolgere a parole le sue domande ai beati: „Noi possiamo vedere nel tuo spirito eleggiamo gia prima che tuscriva" (1,60); e Zabdiel ci nar ra del suo incontro con uno spirito superiore: „Io nulla dicevo, ma egli, che apparteneva a una sfera piü alta, conosceva i pensieri miei senza ch'io glieli esprimessi"(II, 169). Dio esercita i suoi sommi poteri per mezzo di spiriti incaricati dell'opera deferita alle varie stelle (I, 164); cosi in Dante i cieli son posti sotto la direzione di cori angelici, i quali muovono, ciascuno, il loro cielo (Par., VIII, 34; XXVIII, 76). Questi servitori, nell'opera inglese, disimpegnano 1' ufficio loro, dando esecuzione al piano noto solo a Dio, e ricercano i mezzi onde ottenere perfetta 1'esecuzione medesima (II, 48); si confronti: Le cose tutte quante Hann'ordine tra loro; e questo è forma Che 1'universo a Dio fa simigliante (Par., I, 103). La mèta comune è di avvicinarsi a Dio, al „perfetto veder", come leggesi in Dante (Par., V, 5). A tal uopo gli abitatori dei cieli devono approfondirsi nella conoscenza di Dio; il loro compito è di natura scientifica. Dissi dianzi di scuole e di uffici; dirö ora che vi si usa una specie di telefono senza fili (I, 39); le grida che si innalzano dalla „terra oscura" vengono accurata' mente registrate ond'essere poscia analizzate (1,94). „Lafede è ivi virtü di analisi scientifica" (II, 188); non è, come in terra, qualche cosa di indeterminato, tra fiducia e conoscenza della verita; „il progresso nelle cognizioni e nella beatitudine procédé di conserva" (II, 127). Un tale concetto intellettualistico viene per cosi dire temperato da quest'altro, che „1'amore è il primo e il supremo comandamento" (II, 72); „se noi piü ci avviciniamo all'irraggiungibile Luce vediamo che tutte le cose mirano a un principio centrale, e questo principio è 1'Amore, che è base di tutte le cose create" (II, 240); „sapienza è amore unito a conoscenza" (II, 99). Paragoniamo ora tutto ciö con quello che Ci insegna Dante. Anche nella sua descrizione del Paradiso celeste, la scienza vi occupa un ragguardevole posto, pur non neU'identica guisa del Cielo di Zabdiel, nel quale non si fa parola, come facemmo di gia notare, nè di teologia nè tampoco di dogma cattolico, nèdi filosofia astratta, ma sibbene di questioni e problemi che, sulla terra, sono oggidi all'ordine del giorno, come, ad esempio, la dottrina dell'evoluzione, il crescere delle cose animate e inanimate, la quarta dimensione, e via dicendo. Tuttavia, nella descrizione della dottrina dell'evoluzione riconosciamo un concetto caro a Platone, e che Dante stesso fa suo: „Vedemmo tutti i prodotti animali e vegetali, e non come sono da voi sulla terra, ma nella loro perfezione" (I, 58). Un altro divario che presente Dante sta in ciö ch'egli pone solo in via incidentele problemi d'indole prettamente scientifica, come 1'origine delle macchie nella luna; egli non descrive 1'ascesa, diremo cosi, graduale alla perfezione per mezzo di uno studio continuo;per lui la maggiore o minore beatitudine dipende essenzialmente dalla grazia di Dio. Ma anche lui pone in rapporto i differenti gradi della gloria celeste con la natura della fede o colla „grazia illuminante", ch'è quella che ci fa conoscere Dio'). Una grande somiglianza tra le due rappresentazioni del1'oltretomba, quella italiana e quella inglese, noi la riscontriamo neU altissimo posto che ambedue assegnano all' Amore, delquale si è gia piü sopra trattato. E' noto come per Dante, conformemente alla dottrina di Platone, 1'Amore si identifichi nel desiderio ardente di Dio: Amore e Dio sono sinonimi; vedasi infatti: L'amor che move il sole e 1'altre stelle. (Par., XXXIII, 145), e ancora: L'amor che il [nono cielo] volge, (Par., XXVII, 111). Amori sono dette le anime che ardono di amore per il Sommo Bene (Par., XIX, 20). Parimenti, per Zabdiel e i suoi spiriti compagni, Amore è un concetto che moltissimoabbraccia, pur non avendo tutta la pienezza di mistico significato che ha in Dante: „Amore ed unita non differiscono molto, forse anzi sono interamente uguali" (II, 46). Mentre in Dante le anime gia sin dal principio occupano il posto loro assegnato alla presenza di Dio, Zabdiel e gli altri beati godono solo a intervalli la visione del Creatore. Maessi, come gli spiriti del Paradiso dantesco, lietamente s'appagano del luogoincuisitrovano;essinonconosconol'invidia. „Quantunque, fra gli spiriti rimasti inferiormente, ce ne potessero essere alcuni di afflitti (per non essere stati ammessi a una sfera superiore), dal loro volto nessuna afflizione perö traspariva; in presenza di Dio nessuno puö essere afflitto" (II, 251). E qui il pensier nostro non puö non ricorrere a Piccarda: Frate, la nostra volonta quieta Virtu di carita, che fa volerne Sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta (Par., III, 70). Debbo infine far notare che in ambedue le opere si insiste in modo speciale sul libero arbitrio; „Noi non dobbiamo", dice la madre del ministro inglese, „far forza mai sulla volonta di al- ') Vedi D. Miguel Asin Palacios, La Escatologia Musulmana en la Divina Comedia, pag. 203. E' caratteristico come mistici arabi, dai quali pare che Dante abbia tolto non poco, propugnassero il concetto inteüettualistico insieme col concetto della predilezione di Dio. In essi il grado della vista della luce celeste dipende dalla idoneita dell'anima a ricevere detta luce, e detta idoneita dipende, a sua volta, dalla coscienza che 1'anima ha di Dio. cuno, ma studiarci invece, mediante appunto la volonta di ogni spirito, d'ottenere la mèta agognata" (I, 12). Si paragoni ciö a quanto Dante dice in Par., IV, 76: Chè volonta, se non vuol, non s ammorza. Tutte queste somiglianze chesiamo venutiflnquiesponendo, non bastano a provarci che il Reverendo Vale Owen, consapevole o no — molto probabilmente non consapevole — abbia composto la sua opera con 1' ausilio di reminiscenze dantesche piü o meno vaghe. Ma maggior forza probatoria, diremo cosi, ce 1'offriranno due nuovi punti di paragone che segnalerö qui in appresso. In primo luogo debbo far notare ciö che nell'opera inglese chiamasi „presence form" (che si potrebbe tradurre con „forma o figura di presenza") e che viene cosi definita dal reverendo Ministro di Orford: „Una forma di presenza è la forma o la figura per la quale una persona riesce visibile a una certa distanza dal luogo ove si trova. Tale forma non è una pura apparizione esteriore, o puro simbolo, ma qualche cosa che vive della vita di quella persona che in tal guisa si manifesta, giacchè il modo di agire e il modo d'esprimersi sono la manifestazione del pensiero, della volonta e della condizione di spirito dell'originale. La personalita mostrasi e rendesi visibile in ogni luogo ove Dio (o, invece sua, 1'angeloa ciö autorizzato) vuole ch'essa si manifesti.... E la figura, nella quale la persona si manifesta, non è che la proiezione, per dir cosi, della persona stessa" (I, XXXI). Ciö fa correre immediatamente il nostro pensiero alla spiegazione offerta da Piccarda circa la comparsa delle anime nelle varie sfere celesti, mentre non lasciano la loro dimora stabile nell'Empireo, ove tutte son radunate: Qui si mostraro, non perchè sortita Sia questa spera lor, ma per far segno Della celestial c'ha men salita. (Par., IV, 37). E se in tal punto 1'influenza di Dante è probabile, 1'influenza sua è certa invece nella visione seguente, descritta dalla madre del ministro anglicano: „Vedemmo apparire una grande croce di lumi, che sembrava trovarsi sulle pendici della grande montagna che limitava la vallata, e, concentratovi sopra il nostro sguardo, scorgemmo ia croce sciogliersi in fulgide nammelle, e noi ci potemmo gradatamente convincere trattarsi di una grande schiera di angeli, scesa da una sfera superiore su quella pendice in forma di croce Gli angeli facevansi sempre piü chiari e piü distinti ai nostri occhi; poi vedemmo una figura piü grande ritta nel punto di congiunzione dei due bracci della croce. A noi tutti, come per istinto, parve riconoscere quella grande figura; era quella, infatti, una manifestazione di Cristo in forma di presenza.... L'espressione di quel volto io non posso perö descrivere" (I, 24). Che questa visione non sia stata ispirata da quella di Dante nel cielo di Marte (Par., XIV, 96), io non posso credere. Ed infatti, si giudichi da quanto leggesi nel canto citato: Come, distinto da minori e maggi Lumi, biancheggia tra' poli del mondo Galassia si, che fa dubbiar ben saggi; Si costellati facean nel profondo Marte que' rai il venerabil segno, Che fan giunture di quadranti in tondo. Qui vince la memoria mia lo 'ngegno; Chè quella croce lampeggiava Cristo Si, ch'io non so trovare esemplo degno — Di corno in corno, e tra la cima il basso, Si movean lumi,.... Che tale analogia sia dovuta al pure caso io escludo recisamente. Ma se la riteniamo una imitazione, dobbiamo ritenere imitazioni anche le altre analogie, somiglianze e coincidenze che 1'opera inglese odierna presenta, consciamente o no, con la Divina Commedia. E' perö certo che una prova della profonda impressione che ancor oggidiesercita sulle mentiumane 1'opera dell'Alighieri, 1'abbiamo in questo ministro anglicano, il quale, sia pure perfettamente in buona fede, crede di scrivere sotto dettatura degli spiriti dei trapassati, mentre altro non fa che applicare a piü moderni concetti reminiscenze del poema di vino. }. J. SALVERDA DE GRAVE VIE MAESTRE E VIE SECONDARIE NELLO STUDIO DI DANTE Siamo al 1921. Or fa quasi un secoio, nel 1823, Karl Witte pubblicava il suo studio suil'ar te dicapir erroneamen tel' Alighieri. II nome del Witte sta in prima linea tra coloro che ci ricondussero dalle bellezze e curiosita dantesche, a Dante stesso. Ci ricondussero, o non piuttosto tentarono di ricondurci? Nulla v'ha di piü owio che differenti secoli e differenti popoli abbiano indicato in un modo e sentito in un altro le creazioni artistiche, delle quali il pubblico è l'umanita. Ciö vale tanto per la bibbia dei cristiani, per le sacre scritture ebraiche, indü e maomettane, quanto per 1'Iliade, la Tragedia greca e la Divina Commedia. S'è forse mai visto un Blosofo che, versato nella storia e nella letteratura, si sia avvicinato sistematicamente al carattere dei tempi e alla natura dei popoli per le vie delle loro sacre rappresentazioni, o della loro venerazione pei tesori spirituali deü'umanita? Chi a tal genere di studi si sentisse propenso avrebbe a sua disposizione un infallibile criterio nel capolavoro di Dante Alighieri. Da seicento anni il mondo possiede nella Divina Commedia un gioiello, il cui pregio immutato rimase, ma la cui ammirazione sale e scende a seconda del livello spirituale proprio dei popoli, a seconda del grado minore o maggiore della propria cecita o della propria chiaroveggenza. Come un'eccelsa vetta montana ora invisibile ravvolta nelle nebbie, ora spiccante nitidissima contro il terso cielo; come una fonte di acqua viva che 1'uno passasenzafarvi gran caso e che 1 altro avvicina per dissetarvisi; come una stella sempre presente, ma ora lievemente velata, ed orainteramente nascosta, ora radiosa di vivida luce ed ora mitemente cinta daü'ombra; cosi noi vediamo 1'opera di Dante attraverso i secoli; e felici posson dirsi quei tempi e quei popoli che altamente la onorarono e la amarono per tutto quanto essa diede loro di vita grande e profondamente intima. Ciö che vale per i tempi e per i popoli, vale pure per gli individui. Disposizione e carattere, inclinazione pér questo o per quello studio, maggiore o minore conoscenza di questo o quel ramo del sapere, predilezione per il generale o per il particolare, tutto questo, e parecchio altro ancora, determina ciö che Dante è per noi, e ciö che Dante a noi da. II „Dimmi chi pratichi e ti dirö chi sei" non riguarda soltanto coloro che per noi sono i poeti piü favoriti, ma benanco riguarda la maniera con la quale essi ciparlano, riguarda ciö che noi daessi prendiamo, riguarda infine i rapporti nostri con i poeti medesimi. A somiglianza degli angeli nel Paradiso che quali specchi ricevono e riflettono 1'eterna luce, cosi 1 anima di un'epocao diunpopoio, o anche di un individuo singolo, è come uno specchio che accoglie questi o quei raggi della luce dantesca, la quale poi esce a sua volta riflessa. La principale domanda che sorge, e a cui una risposta s'impone, è certamente questa: che cosa è lo „splendore" dell'opera dantesca, quale esso culmina nella Divina Commedia? Ecome possiamo noi scoprirlo? A parte, per ora, 1'autenticita della lettera a Gang rand e della Scala, nessun lettore sereno della Divina Commedia potra negare che le note parole seguenti della celebre epistola non rendano 1'esatta natura della Trilogia dantesca: „Quanto alla lettera il subbietto è, adunque, questo: lo stato delle anime dopo morte, considerato semplicemente; poichè di quello e d'intorno a quello il processo di tutta 1'opera intende; e quanto al senso allegorico, n'è soggetto 1'uomo, che per suo libero arbitrio bene o male operando, aspetta il premio o il gastigo della Giustizia". E piü oltre: „II fine dell'opera e di parte di essa puö esser molteplice, ovvero prossimo e remoto: ma, evitando ognisottigliezza, brevemente diremo esser fine del tutto e della parte ilrimovereiviventidallo stato di miseria per dirizzarh a quello della felicita". Qualora si consideri a lato di questo intimo intendimento del poeta il fatto che nel suo tempo la teologia dominava tutte le scienze e tutte le arti, le quali volontariamente, spontaneamente, in sublime inconsapevolezza, a quella si assoggettavano, v'ha certo luogo a grandemente stupirsi che dalla Rinascenza ai giorni nostri il mondo medioevale intellettüaleemorale, 1'atmosfera spirituale che Dante respiró e dalla quale nacque la Divina Commedia, non abbian costituito il primissimo e il piü urgente oggetto di studio per quanti s'interessavano e s'interessano tuttodï al concetto dell'opera dantesca. E ancora ai nostri giorni si puö udire da tutti, come un sol coro, affermare, perfino da dotti chiarissimi, tale preponderanza della teologia, anche per Dante, anche nella Divina Commedia, e poscia vederla trattare quale „quantiténégügeable",o,peggio ancora, metterla da banda con un „c'est la mon moindre souci". E' questo un fenomeno tanto piü caratteristico in quanto che non v'ha nessuno che creda di poter capire la „Vita Nuova" senza essere prima bene penetrato nei concetti amorosi dei trovatori, o, con piü estensione parlando, senza essersi piü o meno orientato nel mondo cavalleresco medioevale col suo specialissimo ideale d amore — E che il Convivio sia poco noto, puö derivare o dal fatto scoperto forse appena di sulla soglia del refettorio, o gia noto anteriormente, che un uomo del ventesimo secoio non puö sedere a un tal convito, neppure a raccattare le briciole che cadono da quella ben imbandita mensa, alla qualle si mangia „il pan degli angeli", a meno che egli non abbia esatta cognizione della intrinseca qualita del cibo che gli si reca dinanzi. II „Trattato della Monarchia", pel suo grande significato storico che racchiude — fu mai scritto un piü nobile trattato di politica? — ha indotto molti a darsi allo studio della storia, senza il quale non si puö concepire, all'esatto suo valore, nè il senso, nè la portata della dimostrazione. Ma sulla Divina Commedia questi taü si gettanoo senza alcuna preparazione, o con unqualche vagoorientamento circa punti affatto secondari: ma del fatto principale, essenziale bene spesso non se ne sa addirittura nulla. E il fatto essenziale è questo: conoscenza del mondo spirituale, del mondo intellettuale e morale, dal quale è scaturita la Divina Commedia; conoscenza che puö conseguire colui che realmente ad altro non mira che a Dante stesso; conoscenza che puö conseguirsi del pari da colui che, non soggetto a una chiesa o a un partito o a un determinato criterio della vita o del mondo, si studia in tutta umilta di porsi al serviziodel vero: conoscenza infine che puö ottenersi pure da quanti credono che possa meglio raggiungersi un abbellimento della vita ab- bandonandosi tutti e completamente a Dante piuttosto che volendo ritrovarsi in Dante stesso. Come colui che passivo dinanzi alla natura differentemente sta e piü è favorito di colui che alla natura voglia imporre la propria indole. Maperchèpoi togliereai nostri tempi l'illustrazione? Ammesso per un momento che il mondo di Dante sia, sotto tutti i rapporti, inferiore al nostro, era perö desso il mondo di Dante, e certo nessuno, tra le migliaia e i milioni che attraverso i secoli salutarono il fiorentino qual maestro, sa d'essersi mai trovatoa contatto con uno spirito piü ricco, piü profondo, piü grandioso e piü alto dello spirito-di lui. Tentar di vedere come Dante vide e tentar di vedere ciö che egli vide; non sembra forse che Ogni studio che a ciö mira non soltanto ci preservi da qualsiasi errore o via traversa, ma ci conduca parimenti a ciö, cui ognuno aspira, potersi trovare, cioè, senza bisogno di alcun commentatore, soli con Dante? II mondo di Dante. Come ce ne possiam fare un esatto concetto? Con la conoscenza della storia politica deU'Europa occidentale, e deiritaUaediFirenzeinparticolare,duranteisecoü XIII e XIV. Inutile qui enumerare le ottime fontiitaliane.tedesche, francesi e inglesi di cui possiamo a tal uopo valerci. Non v'lia, si puö dire, un vero amico di Dante che non conosca le „Croniche Fiorentine"o frammenti di esse, che sono in diretta relazione coi tempi di Dante e le opere sue. Nè egli puö ignorare 1'opera del Villari „I primi due secoli della Storia di Firenze"2). Anche colui che si sia reso famigliare con questi due libri dianzi citati, non puö certo capir tutte le allusioni storiche della Divina Commedia, ma con 1'aiuto di note esplicative e ampi commenti di ottime edizioni dantesche, potra in certo modo trasportarsi nell'ambiente medioevale. In tal guisa gÜ sara dato di poter sfuggire al pericolo, non certo immaginario, di veder poste in errati rapporti le allusioni medesime, o vederle fuori e staccate dalla vita dei tempi cui invece si riferiscono. Che si debba frattanto conoscere lo spirito del ') Nel 1906 usd presso Constable (Londra) „Villani's Chronide" tradotta da Rosé E. Selfe. edizione di Philip H. Wicksteed. E' questa una specie di antologia intesa esclusivamente ad agevolare lo studio di Dante. *) La Signora Villari. consorte del professore, tradusse quest opera in inglese; edizione Fisher Unwin (Londra). tempo per essere in grado di annettere agli awenimenti il loro giusto valore e signifkato, è cosa che possiam dire owia. Ese Witte, collo studio suo dianzienunciato, spezzauna lancia contro coloro che esercitano la critica del testoo ammanisconodel1'esegesi, pur non possedendo, come parrebbe, concetto alcuno •ttB'impossibilitè dell'esegesi e della critica del testo qualora si ignori il mondo di Dante, Witte, ripeto, certo condannerebbe quegli storici, i quali non posero mai mente nè a quello sfondo di pensiero e di fede, sul quale si svolsero tali awenimenti, nè all'atmosfera in cui questi trovavansi. E non è quindi, aggiungiamo, la lettura e lo studio di „De Monarchia" stessa, e delle epistole, un mezzo di sicuraefficaciaondeimpararea conoscere 1'atmosfera, in cui Dante medesimo respirava? Non imparasi forse con ciö anche a misurare la distanza tra la visione politica di Dante e quella di partiti, divisi, e 1'un contro 1'altro in lotta? Che colui, il quale non possiede un giusto concetto degli usi e dei costumi del tempo di Dante, come essi, ad esempio, presentansi nella letteratura di Provenza e di Toscana, si trovi estraneo all'opera dell'Alighieri, labbiamo gia segnalato a proposito della „Vita Nuova". Appare inconcepibile che la Divina Commedia possa vivere per coloro cui manchi una tale conoscenza politica storica della civilta di quei tempi. E quantunque indispensabile sia detta conoscenza, essa potra assumere un qualche significato sol quando comprenda in sè una visione del mondo intellettuale e morale del medioevo. Ed è appunto ciö, se non erriamo, che in generale, almeno nel nostro paese, non si riconosce. Non che questo costituisca 1'unico elemento necessario, ma certamente costituisce ciö senza cui tutto il resto perde del suo valore, e grazie a cui tutto il resto assume un reale significato. Donde mai un tale fenomeno? Se ne deve forse ricercare la spiegazione nella facilita con la quale pretendesi che i grandi spiriti appartengono a tutti i paesi e sono di tutti i tempi? Non si dimentica forse che quanto forma di Dante il cittadino del mondo e il contemporaneo di tutti, è pure daascriversiinparte alla sua personalita profondamente e fortemente radicata nel proprio paese e nel proprio tempo? Per essere dappertutto bisogna pur essere in qualche luogo, e lo spirito cosmico di Dante 4 albergava in un dttadino di Firenze. Egli è cosmopolita non malgrado egli si trovi sul proprio suolo, ma appunto per tal fatto. E ciö vale parimenti per lo speciale mondo intellettuale e morale in cui il poeta viveva. Se egli avesse giudicato un po' superficialmente il credo del tempo suo, se le dottrine della chiesa lo avessero meno interessato.se egli si fosse meno curato del senso e della portata della dottrina chiesastica, egli non sarebbe mai divenuto il duce delle generazioni e dei tempi successivi. II profondo, che è 1'universalmente umano, lo si puö solo raggiungerè col penetrare nel cuore, nell'intima essenza di determinate forme di fede. E neU'intensita, con la quale il grande spirito umano abbraccia la fede dei tempi suoi, abbiamo, per dir cosi, la garanzia di poter trovare in lui 1'essenziale della vita spirituale. Ed è questa una delle ragioni per le quali esso non accorda i suoi preziosi tesori a innumerevoli suoi adoratori, ignari del mondo intellettuale del medioevo. In Olanda si presta fede talvolta alla stolta asserzione che vorrebbe far di Dante un precursore della Rinascenza; chi tanto pretende non potra mai awicinarsi al divino poeta. Dante è un medioevale, ed estraneo interamente al mondo al quale lo si vuok far appartenere. Qualora si voglia avvicinarghsi devesi penetrare nello spirito del tempo suo. Ed è realmente inspiegabile e inconcepibile come una tal cosa non la si voglia rettamente capire. Nel piü comune dei manuali di storia il passaggio dal medioevo ai tempi moderni è presentato e descritto come la venuta di un nuovo mondo. Agevole è quindi la deduzione che se ne puö trarre, e cioè, che, per altro verso, il ritorno da questo a quel mondo è esso pure un mutamento del clima spirituale. E devesi inoltre aggiungere ciö che avemmo gia ad osservare come nei tempi della scolastica, nell'alto medioevo or dunque, la teologia fosse la scienza predominante e tutte le altre scienze non solo le fossero inferiori, ma le fosserb addirittura assoggettate. Ciö si sa e si dice, e in pari tempo non ci si vergogna di essere al tutto ignari del mondo credente dantesco, mentre ognuno converra che noi molto piü agevolmente potremo muovercisu di una terra, limitata ad occidente dalle colonne di Ercole e all'oriente dal Gange, che su di un mondo, in cui è totalmente ignoto un concetto che piü di ogni altro ha döminato la vita degli uomini dal XVI secoio ai nostri di, il concetto, vogliam dire, .del „progresso". Un mondo, inoltre, pel quale veder la vita di tutti i giorni „sub specie aeternitatis" era cosi comune come non comune era pel mondo nostro; un mondo, in cui il possesso, in se medesimo, dava gioia; e non dava, come da oggidi, soltanto gioia in quanto recava in sè la promessa di un possesso maggiore. Un'altra spiegazione del fenomeno constatato della poca conoscenza del mondo morale del medioevo negli amici di Dante è la seguente, che, cioè, molti di coloro chestannofuori della chiesa negano fede ai teologi cattolici, i quali spiegano Dante dogmaticamente. E non a torto. Giacchè, se Dante nel suo modo di considerare la vita fosse semplicemente stato cattolico romano, certo egli non sarebbe stato di tutti i tempi e di tutti i paesi. Abbiamo frattanto un libro, apparsonel 1845,del5^a"am: "L^ante ct k philosophie cattolique au treizième siècle" che a molti grandemente ha giovato. Ma è pur vero d altra parte che, per quanto io sappia, nessuno potè favorire questo orientamento spirituale quanto Villani come fllosofo storico. La scolastica è, e non soltanto per la sua lingua, alla maggior parte di noi un libro chiuso; mentre poi opere come „Lehrbuch der Kirchengeschichte", di Kurtz, „L'Italie mystique", di Emile Gebbart, libri, diremo, ritenuti di base alla dogmatica e alla storia deidogmi, nonconcernonoin modo diretto ï nostr0, Ra9ion questa per la quale le „Jowett Lectures" del Dott. Wicksteed su S. Tommaso e Dante'), uscite in volume nel 1913, rivestono un notevolissimo significato per tutti gli studiosi di Dante: per coloro, in primo luogo, pei quali Dante profeta e Dante poeta — quale possa pur essere il significato dal punto di vista letterario, storico, archeologico, ecc. — anzitutto significa vita ed unapersonaleesperienza. Abbiamo poi, da alcuni mesi, un altro libro dello stesso autore sopra San Tommaso e la sua filosofia; contiene quest'opera le „Dibbertlectures" tenute durante la guerra, nel 1916, contemporaneamente e a Londra e a Oxford.2) 2 d ante, ^ Aq""»8 by Philip H. Wicksteed. j. H. Dent and Sons. London. Aquinas*° between Do9ma and Philosophy, illustrated from the works of Su Thomas Chi di coloro, i quaü s'interessano alla vita di Dante, non ricorda i momenti in cui una nuova luce cadcva su questo o quel passo, e non ricorda segnatamente i momenti di visione allorchè piü profondamente scrutavasi nella ricchezza del pensiero medioevale, e vedevasi, non fosse che per un solo attimo, come Dante stesso vedeva? E chi, ancora, di essi non sa che ciö accadde, e potè accadere, qualora ci si abbandonava a lui stesso, a Dante, e noi pure üluminava una parte di quello „splendore", riflesso nell'anima propria del poeta dall'eterna fonte di luce? Ed ancora, chi non sa che una tale visione non suscitano nè studi critici, nèindagini storiche, nè apprezzamenti tetteran. nè la ricerca di sensi occulti o di origini celtiche od arabicher E ciö", quantunque sia owio che ogni studio serio, onestoedisinteressato, senza uno scopo prefisso.giova, edevenecëssanamente giovare, alla perfezione del concetto che, in unsemphce „fulgore ', talvolta perviene a noi; e quantunque sia per se stesso chiaro che ogni conoscenza del particolare in tale momento cessi, come parte singola, di rivestire il suo significato, nsolta come in una sintesi superiore. Si capisce quindi di leggeri quanto maggiore sigmncato assuma per noi colui che ci possa servir di fidate guida negli sforzi nostri per capire Dante. E'chiaro come la luce del sole che soltanto pochi sono gli eletti che possan vedere come Dante stesso vide, che possanosapereesentire come egli seppeesenti; è perció naturale che su questi felici cadrè la scelta nostra nella ricerca di una guida. Non sono certo molti coloro le cui opere su Dante presentino nel tono, nel gesto, nel colore quella certa parentela col Maestro da awicinarci a lui. Non sono molti quelli che ci possan mettere in diretto rapporto tra loro e Dante. Chi scrive su Dante cosi come scrivesse su Voltaire, non nuscirebbe a indicarci neppure la via dell'Inferno dantesco. bgh non potra trovare la via, tutta la via per la quale Virgilio guido il discepolo. Ed è poi a vedere se egli abbia neppur supposto lesistenza del mondo proprio di Dante, 1'ambiente in cui visse, 1'aria che respiró. Rari son quindi iübri che siano assurti, diremo, al livello di Dante, all'altezza, alleccelsa altezza della vita del Sommo Poeta. Ne conosciamo alcuni, come: „Ten Heavens di Edmond Gardner; „Mystieke Reis" (Viaggio mistico) di Bierens de Haan, senza star qui a vedere se in questo nobile libretto si mostri il fllosofo del secoio XIV ó il filosofo del XX secoio. Ma soprattutto dobbiamo citare le due sovra indicate opere: „ Dante and Aquinas'' e „ Reactions bet ween Dogma and Pnilosophy" di Wicksteed. In quest'ultimo libro, è perö vero, Dante viene solo nominato, e poche volte, e vi si tratta piü che altro dell ambiente in cui il poeta visse, ma non la maniera nella quale egli in quell ambiente visse e queU'ambiente spiegö. Ciö non per tanto lo studio di una tal opera è per ogni amico di Dante d'inestimabile pregio, poichè essa ci pone proprio nel punto centrico dal quale noi dobbiamo vedere le opere dell'Alighieri, o dal quale noi non le vediamo affatto. Edè cosi, giacchè „Dante, nel suo attaccamento al concetto di Dio, quale immota fonte di moto, è un vero discepolo non solo di Aristotele, ma anche di San Tommaso. E qui hoi vediamo la pietra angolare della teologia naturale dell'Aquinate".1) Ricordiamo Parad. XXIV, 130: Io credo in uno Iddio Solo ed eterno, che tutto il ciel move, Non moto, Ci sia permesso di citare alcuni punti che Wicksteed pone agli altri dinanzi, e che, a parer nostro, rivestono un decisivo significato per coloro che voglion penetrare 1'essenza dell'opera dantesca, per coloro, quindi, i quali „bramano di percorrere, con Dante, la via maestra della visione spirituale". In primissimo luogo il pensiero fondamentale su cui, per quanto riguarda 1'uomo, basa la Divina Commedia; e cioè: L'uomo non riceve ciö che merita, ma ciö ch'egli stesso elegge. Strazio infernale e letizia celeste, non son punizione, non son ricompensa: questa e quello sono inerenti alla cattiva e alla buona scelta, da cui derivano e di cui sono la necessaria, anzi 1 'ine vitabile, conseguenza. In qual- < siasi luogo ove l'uomo elegge il male.ivi èl'Inferno. Allorquando Dante imprese a scrivere la Divina Commedia avea giè attraversato 1'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Egli sapeva il significato dei fatti: peccato, pentimento e vita: si, eglificonosceva —• per esperienza. Ecco perchè l'Inferno è per noi realta, pur contrastando il nostro profondo sentimento col concetto di ') „Reactions between Dogma and Philosophy", pag. 230. Dante circa la eternita dell'Inferno. Un tale concetto trae la sua origine dalla teologia del poeta. Ma egli, Dante, conosceva anche lui 1'eternita dell'Inferno nelsensoincuinoi purelaconosciamo: „ove è peccatore non pentito ivi è Inferno". II significato profondamente umano del Purgatorio non assume esso tutto il suo pieno valore sol quando sia capita la natura della pena da un canto, e dall'altro canto la posizione del paradiso terrestre sulla vetta del monte della purgazione? Sol quando si sia ben capito che al pentimento deve seguire lo stato di penitenza? Che pentimento non equivale a vergogna per cattive azioni e prave disposizioni che vietano a un uomo di guardare direttamente negli occhi un altr'uomo, e che lo inducono a nascondersi e a fuggire la luce del sole ? Ma che è invece quel penosissimo sentimento, quell'assoluta certezza che l'uomo, il quale cede ad illecite passioni, ha rinunciato alla sua vita reale, che egli, si è rivoltato a sè stesso, che egÜ, cosi macchiandosi, si è reso inetto a vedere e aconoscerela veraLuce? Che dal pentimento emana il desiderio di riacquistare quanto la natura, sia pure seguendol'indole sua, ha rigettato, peccando contro se stessa, lungi da sè? Non consegue forse da tutto ciö che noi dobbiamo staccarci dalla vita che viviamo e che noi dobbiamo scioglierci da quanto prima noi eravamo? E che per ciö appunto la purgazione è un risalir faticoso la strada fatta per riconquistare, o, meglio, per riavere? E che quindi la base del Paradiso Terrestre per l'uomo caduto, dogmaticamente per l'uomo dopo la caduta, deve essere il monte della Purgazione? Questo Paradiso è e deve essere armonia, è e deve essere possesso. Desiderio non è raggiungimento: ecco perchèil Purgatorio pieno è di desiderio, il quale non puö trovar posto nel Paradiso. Possesso e godimento del possesso, ecco il Paradiso. E lo si conseguirè sol quando la volonta e 1'intuizione concorderanno perfettamente con la volonta divina. Se ciö awiene a un'anima nel Purgatorio, come ad esempio a Stazio, allora il monte freme di gioia e al cielo innalzasiil canto: „Gloriaa Dio!" Ogni riluttanza, ogni contrarieta o vana apparenza, è scomparsa. Le passioni sono, possono e devono essere ordini. & pensi alle parole con le quali Virgilio prende commiato da Dante, parole in perfetta armonia coll'insieme. E ognuno ca- pisce che questo esempio fu scelto, perchè se ne puö derivare quanto il filosofe» e il profeta Dante, che trattö si egregie cose sulla realta, do vette emergere e predominare sulla dogma tica del tempo suo, o meglio ancora, sulla dogmatica di tutti i tempi. Ed infine, anche perchè si puö con ció capire per quale ragione i suddetti studi offrono un ausilio si puro e si efficace a quanti mirano alla visione propria di Dante. „San Tommaso, quando ci paria dell'Inferno, ci stupisce in tale maniera, non perchè egli vi crede, ma perchè egli studiasi di dimostrare che la giustizia dell'esistenza di quel regno è riconosciuta dal nostro umano giudizio. Anche Dante crede nell'Inferno cosi fermamente come San Tommaso vi crede. Ma egli non nasconde nè a se stesso, nè ai suoi lettori 1 'awersione dello spirito suo contro la apparente ingiustizia dell'Inferno".1) Perchè poi Dante costituisca in ció una rivelazione, e faccia penetrare in ognuno il significato della cattiva scelta, quale un tradimento al proprio intimo essere, quale un attentato allo Spirito nella propria personalita, e perchè San Tommaso nulla qui abbia da dirci, lo spiega nello stesso tempo il nostro buon diritto ad allontanarci da ogni commento dogmatico su Dante medesimo. Devesi, or dunque, proceder cauti e non studiare, con dogmatiche disposizioni, 1'Alighieri. Tutto in lui assume vastissime pr opor zioni e n'esce certo ingan nato chiunque voglia spiegare Dante conseguente tanto dal puntodi vista allegorico, quanto da quello simbolico. Per conoscere il mondo dantesco e per cercare di veder lo, sia pure in limitata misura, come Dante stesso lo vide, è precipuamente necessario unrispettosoecomprensibile avvicinamento nostro al concetto che il poeta aveva della vita e del mondo. Un mezzo da nessuno finora indicato, e che in ció potra esserci di notevole ausilio allo scopo nostro, si è di leggere ció che Dante medesimo lesse, di approfondirsi in tutto quello che a lui era noto di Platone, di Boezio e di qualche grande scolastico come, fra altri, Bernardo e Tommaso. Di Boezio, segnatamente, il cui concetto sulla eternita, quale „comprensione e possesso insieme deüa piena perfezione della vita illimitata", domina tutto il Paradiso Dantesco. Chi, in tal guisa, percorre '),,Reactions between dogma and philosophy", pag. 564. le vie maestre ncllo studio di Dante, potra ad ora ad ora permettersi, senza grave danno, di sostare e riposare lungo vie secondarie. Di queste ve n'ha ed anche di molto attraenü; D nostro pensiero corre subito alla musica e ai colori della Divina Commedia e alla astronomia del poeta, oppure a Ma perchè presentar qui una lungaenumerazione? Tali viesecondarie sono pericolose solo per chi concepisca erroneamente la parte peril tutto, o per chi, ignorando il pensiero centrale infbrmatore, perda di vista 1'insieme delle vaste proporzioni. Di queste vie secondarie ve ne sono poi di ancor piü adescatricie in pari tempo pericolose, giacchè, in un certo punto, o finiscono senza uscita alcuna, o s'impaludano. Son desse le vie battute da coloro che in Dante credono di scoprire 1'occultista, il teosofo, il framas- sone, oppure ma meglio è fermarci chè troppo lunga sarebbe lmutue enumerazione.il catalogo al „British Museum", alla voce Dante, non comprende, solo fino al 1900, cinquantotto pagine in folio? Ma in questo campo, come in tanti altri, v'ha motivo abene sperare in tempi migliori. Anche qui si ha, come altrove, di mira a concentrare, e dalla svariata molteplicita addivenire ad unita. Un'opera di illimitata specializzazione riesce fatalmente ad una disgregazione, a meno che non sia e non rimanga ben radicato il concetto del nesso generale e di un unico spirito che predomina. Trattandosi di Dante — e non di Dante soltanto, del resto — si sappia inoltre che trovera ció che cerca solo colui che disinteressatamente, imparzialmente, scruti e indaghi, solo chi miri alla conoscenza, alla pura conoscenza, vogliam dire, e non alla gioia che da questa scaturisce. Ció che nel Paradiso Dantesco dicesi degli angeli (Par.'XXVIII, 106— 112), è pur vero anche per noi: E dêi saver che tutti hanno diletto, Quanto la sua veduta si profonda Nel Vero, in che si queta ogn'intelletto. Quinci si puó veder come si fonda L'esser beato nell atto che vede, Non in quel ch'ama, che poscia seconda. E. C. KNAPPERT DANTE NELLA LETTERATURA NEO-ELLENICA T^\ante non conobbe il greco e molto tempo passö prima che •L-'la Grecia conoscesse Dante. L'influenza che i popoli latini esercitarono sulla civilta e sulla letteratura della Grecia venne, nel medioevo, per primo dalla Francia. In sul principio del secoio XIV sorse la „Cronaca della Morea", nella quale narrasi, probabilmente da un francese, o da uno di sangue misto greco-francese, come la Grecia fosse conquistata dai Franchi e quindi suddivisa in tanti staterelli feudatari. Questo poema, che consta d'oltre novemila versi, mostraci chiaramente, e non per il suo contenuto soltanto, l'influenza della lingua e dei costumi francesi. Pure di quell'epoca datano una traduzione, ancor oggi inedita, della„GuerredeTroie"diBenoitdeSainteMore, e una „Iliade" popolare, opera d'un poeta d'assai poco conto, Hermoniakos, il quale probabilmente tolse dall'antica opera francese di Benoit de Sainte-More la non comune forma del verso, di otto sillabe. Ben presto perö 1'influsso francese venne sopraffatto dall'influsso italiano, e massime dall'influsso veneziano. I cavalieri d'avventura dovettero cedere dinanzi ai mercanti delle repubbliche, i quali si stabilivano con le loro fattorie nelle regioni del Levante, dominandovi l intera vita economica. Da allora, si era nel secoio XV, la letteratura italiana ebbe ad esercitare per secoli una grandissima e importante influenza sulla letteratura greca; una chiara prova la riscontriamo nell'adozione della rima. Nei primi secoli, invero, rare sono le traduzioni di opere originah italiane, ma numerose le libere elaborazioni di opere italiane, come pure le opere greche, le quali potrebbero dirsi opere originah, e mostrano in piü luoghi chiara conoscenza dei poeti italiani. Citeremo qui solo alcuni esempi delle suddette tre categorie: La „Teseide" del Boccaccio, che fu voltata in traduzione letterale in greco (Venezia, 1529); „IlCantaredi Fiorio e Biancifiorc", poema toscano del secoio XIV, di oltre millecento endecasillabi che diede lo spuntoa un'opera di quasi milleottocento „versus politici", versi cioè di quindici sillabe; la „Sacra Rappresentazione di Abramo ed Isacco" diFeoBelcari (Firenze, 1485), che ispirö con molta probabilita un poeta cretese nella composizionediunmistero: „IlSacrificio di Abramo", che riusci, per mole, doppia dell'opera del Belcari. Ciö che ci rimane di creazioni teatrali, rappresentate sulla scena a Creta nel secoio XVII, consta di riproduzioni quasi esclusivamente di drammi italiani. A Cipro, nel regno dei Lusignani, incontriamo dei sonetti greci, i quali mostrano segni mdiscutibili di imitazione petrarchesca. Una pastorale, la „Leggiadra Pastorella" (1629) ci dice chiarissimamente dell'ispirazione del „Pastor Fido" del Guarini. Nellagrandeepopeacretese „Erotokritos"riscontransi non dubbie analogie e imitazioni di poeti italiani, segnatamente del Tasso e dell'Ariosto. E piü numerosi sarebbero i nomi dei poeti italiani che dovremmo menzionare se noi dovessimo soffermarci estesamente alla letteratura greca delle isole Joniche, la cui popolazione, per la massima parte, paria le due lingue. Ma gia da quanto piü sopra dicemmo sulla grande influenza delle lettere italiane, sorge ladomanda: „Come si spiegail fatto che nei primi secoli della supremazia italiana il massimo poeta d'Italia, forse il piü grande della letteratura mondiale, non funè tradotto, nè imitato e, pare, neppur noto nella Grecia?" Un unico poema si ha del periodo cretese, nel quale incontrasi un episodio dovuto probabilmente, come qualcuno pretende, alla Divina Commedia. Vedremo ora quanto lieve sia una tale probabilita. II componimento poetico cretese di cui trattasi, del principio del secoio XVI, intitolasi „Apokopos", che significa: „11 riposo dopo il lavoro" (Legrand, Bibliothèque grecque vulgaire, II, pag. 94-122). II poeta ha una visione; cade nelle fauci spalancate di un mostro e va a raggiungere 1'Ade. Ivi è grande frastuono e confusione di voci; due spiriti s'avanzano verso il poeta e gli rivolgono numerose domande, tutte concernenti la vita terrena: „Da dove e per quale via sei tu qua giunto? Vi è un cielo? Vi è una terra? Vi sono tuoni e piogge? E giardini anche e uccelli canori, fiori e verdicampi? Brillano ancora le stelle? Le campane chiamano ancora i sacerdoti alle chiese ? Celebransi ancora matrimoni, e domeniche e altri giorni solenniche la gentefesteggia coi suoi abiti piü belli?" E soprattutto: „I viventi nella loro gioia pensano ancora a noi? Piangono essi la nostra dipartita? E tu ci porti scritti di loro anostra consolazione?'' II visitatore risponde a tutte le svariate domande. A malincuore deve confessare ai due spiriti interroganti che ben pochi sono i superstiti che si mantengano fedeli al loro lutto: le vedove, quasi tutte, han contratto nuovi matrimoni, a ciö stimolate dai preti, che si ripromettono lucrativi compensi per le chiese. Soltanto le madri non hanno dimenticato iloro figliuoli. I morti rispondono piangendo, e nel loro pianto altro non è che un assillante desiderio di poter tornar sulla terra e godervi ancora liete cavalcate e partite di caccia al falco. II visitatore chiede a sua volta ai due spiriti come giunsero neU'oltretomba. Rispondono questi dilungandosi a narrar la loro storia. Dicono che, figli dun padre potente, da una ricca citta, grande come Roma, ma „vaso di stolta superbia e duplicita", intrapresero un lungo viaggio per mare onde visitar la loro sorella; in una burrasca perisce la nave, e i due vanno a flnire all'Ade, ove giunge pure la loro sorella conun bimbocui essa diede la luce. Dopo questa narrazione il poeta lascia il regno ultraterreno, mentre gli fa corona d'intorno la folla dei trapassati, giovani e vegliardi, intenti tutti esclusivamente alla occupazione che esercitavan nel mondo; personaggi cospicui con numerosa servitü, oratori e preti: scrivono essi, o fanno scrivere, lettere ai parenti, ai discendenti per scongiurarli a recar loro sollievo col far elemosina ai poveri. „E cosi facciaanche il visitatore" dicono gli spiriti, „ma lo faccia finchè vive, e non per testamento, giacchè gli eredi non eseguirebbero le sue ultime volonta". Non neU'Inferno di Dante, come erroneamente dice Krumbacher (Storia della Letteratura bizantina, pag. 818), ma bensi nel Purgatorio, è da ricercarsi 1'episodio che ci mostra una certa analogia coir„Apocopos", e precisamente nel V canto. Ivi pure alcuni spiriti di defunti si rivolgono a Dante, dopo che due di essi furono mandati al poeta in qualita di inviati (Purg. V, 28 e segg.);ivipureesprimesiildesideriocheiviventi facciano qualcosa a sollievo delle anime purganti (Purg.V, 70—72, 87 e 133). Nel canto successivoun tale desiderio porgea Dante 1'occasione di chiedere a Virgilio se la preghiera dei superstiti possa alleviare le pene ai defunti (Purg. VI, 28—33 e 37—48). Ma quale grande divario non scorgiamo fra i due, tanto nei particolari quanto nel concetto informatore! In Dante gli spiriti nulla chiedono della vita terrena e dei sentimenti dei superstiti: Buonconte da Montefeltro sa che la vedovamoglie sua Giovanna „ed altri" non si curano piü che tanto di lui, defunto (Purg.V, 89). I due inviati non sono in Dante che apparizioni passeggere, nel greco assumono invece vesti e aspetti di protagonisti. Maggiore divario vedremo se noi prendiamo a considerare le due opere nel loro insieme. II poeta greco ci narra la sua visione per biasimare 1'oblio dei superstiti e per gettar una non favorevole luce su donne e su preti. Dante, 1'ammiratore della donna e il pio cattolico, paria, è vero, del1'infedelta di Giovanna, ma esprime la sua simpatia in note commoventi per Pia de' Tolomei, la vittima del marito (Purg. V, 135—136). L'oblio dei viventi, ch'è la nota predominante del poema grecö, viene appena accennatonell'opera dantesca. Nell' oltretomba dell' „ Apokopos'' non v'è traccia di sentimento della colpa, nè di penitenza; vi si vive una vita animata dal1'esclusiva e ardente brama del ritorno sulla terra; gli spiriti dei morti nulla posson fare e nulla fanno per la propria eterna salvezza, solo passivamente attendono quell'aiuto che posson offrir loro gli amici, i superstiti. All'incontro, tutto il Purgatorio regge su di un criterio diametralmente apposto, e Jacopo del Cassero chiede la preghiëra dei viventi „perch'io possa purgar le gravi offese" (Purg. V, 72). In breve, si puö dire che quello del poeta greco èun oltretomba della fede popolare dei tempi antichi e degli odierni ben noti canti popolari; in Dante, invece, troviamo la rappresentazione della chiesa cattolica. Di comune i due episodi non hanno che un'unica particolarita che non si puö spiegare con la comunanza del soggetto: i due inviati. Tale circostanza ci obbliga ad ammettere che il poeta greco deve aver avuto una vaga reminiscenza di un episodio simile, ma nulla piü. Pernot, il solo studioso e dotto che non si sia appagatodiriferirsisemplicementea Dante, txae come conclusione che non si puö con sicurezza constatare alcun rapporto diretto tra r„Apokopos" e la Divina Commedia, e che, indubbiamente, devonsi ammettere uno o piüpersonaggiintermediari, oppure la mancanza di un qualche elemento collegante (Pernot, Etudes de Littérature grecque moderne, Paris, 1916, pag. 221). Le parole acerbe che riscontriamo nell' „Apokopos" concernenti la ricca citta, 1'uguale di Roma, e che viene chiamata „un vaso di stolta superbia e duplicita", si riferiscono, secondo Pernot, a Costantinopoli, e 1'autore da ció deduceche probabilmente il poeta deve essere stato un greco, appartenente alla chiesa cattolica. Ma una tale ipotesi puó reggere sol quando si ammetta che il poema è di molto anteriore alla versione che ce n'è rimasta, e, ad ogni modo, decisamente anteriore al 1453, giacchè dopo di tale data non si puó in nessuna guisa parlare di ricchezza e di orgoglio dei greci a Costantinopoli. Qualora si voglia prestar fede a una imitazione dantesca da parte del1'autore dell'„Apokopos", si puö considerare il vituperio scagliato contro la ricca citta natale dei due inviati come ispirato dai vituperi scagliati da Dante alla super ba eavaraFirenzeche 10 condannó all'esilio (Inferno XVI, 73—75; XXVI, 1 — 12; Purg. VI, 127-151; XV, 97 e segg.; Parad. XXXI, 39; cfr. ü vituperio a Pisa, Inferno XXXIII, 39—84, e il giudizio su Pistoia, Inferno XXIV, 126; su Genova, ibidem XXXIII, 151 e segg. ibidem VI, 76—96). Ma noi dobbiamo subito riconoscere che di una tale imitazione dantesca non abbiamo sicure prove, tutt'al piü la si potra considerare come possibile. Non v'ha neppure un passo, neppure un punto che ci dica una non dubbia conoscenza che della Divina Commedia avesse avuto 11 poeta greco. II quesito or dunque da noi posto, circa la causa del silenzio su Dante e della mancata sua influenza, non è per anco risolto. A nostro parere la risposta potrebbe essere questa: La Divina Commedia è un poema puramente cattolico; Dante, per quanto indipendente egli pur sia nel giudicare il clero, e segnatamente papa BonifacioVIII, è un fedele ed umilefiglio della chiesa, e la filosofia su cui poggia 1'opera sua è la filosofiadi San Tommaso d'Aquino. In un periodo nel quale ledifferenze tra chiesa oriëntale e occidentale davano origine a si lunghe e violenti lotte, la Divina Commedia non poteva essere dai greci accettata.La cantica di mezzo, il Purgatorio, quindi la terza parte di tutto il poema, i greci dovevano incondizionatamente respingerla; nel Paradiso molto c'era che non poteva non irritare i greci. Una traduzione integrale della grandiosa opera dantesca non seduceva molto, nè poteva sedurre la Grecia, esiccomeilcomplesso dell'opera non concordava coi sentimenti del popoio greco, cosi neanche gli elementi costitutivi della Divina Commedia divennero popolari. Pochi, or dunque, devono essere statii greci che si dedicarono allo studio della Divina Commedia, e come esiguo rimase sempre il loro numero, esiguafu sempre la loro influenza. Fu appunto intorno a un passo in cui Dante sostanzialmente staccasi dalla dottrina della chiesa greca, che nel XV e XVI secoio (che fu il periodo in cui maggiormentefiori la letteratura cretese) sorse una lotta vivace. Alludiamo qui allo stato del1'uomo nel tempo che intercorre dalla sua morte al giudizio universale. La chiesa oriëntale, naturalmente, nulla crede di una tale vita mondana degli spiriti come la dipingono„rApokopos" e i canti popolari; essa chiesa ammette una specie di letargo del1'anima, tutta presa da un forte presentimento di un prossimo castigo o di un prossimo premio, a seconda della vita.obuona o cattiva, qual fu sulla terra. La preghiera dei superstiti puö tornar a beneficio delle anime in attesa, puö recare conforto e speranza a quanti spiriti sui quah pesa il dubbio della loro sorte awenire; ma dal regno oltremondano sono escluse ogni penitenza, ogni „attiva purificazione". Sta qui il divario cardinale, a questo riguardo, fra la chiesa oriëntale e la chiesa occidentale. Al concilio di Lione (1274), cui intervennero pure dei prelati greci, fu affermata e stabüita la dottrina della chiesa occidentale relativaalla purificazione delle anime mediantela penitenzadopo la morte. Al concilio di Ferrara (1438) e a quello di Firenze (1438—1439) i greci, costrettivi dalle tristi condizioni economiche della loro patria, in tale materia e in altro ancora, si sottomisero alla dottrina di Roma; maè noto che 1'unionedelle chiese, in tali concili decretata, altro non fu che una parvenza d'unione. II metropolita di Efeso, Markos Eugenikos, che partecipó esso pure al concilio, sorse contro la dottrina occidentale con tre suoi scritti, appunto sopra questo soggetto. Piü tardi Leo Allatius, con un trattato di grande mole, di oltre trecento pagine, tentö, ma invano, di dimostrare che non esisteva differenza alcuna tra la dottrina greca e quella latina. E Vero che neanche la chiesa cattolica non ammette „ buone opere "dopo la morte e paria anzi di „ satispassio"(non satisfactio) per far capire che non trattasi affatto di purificazione volontaria, sibbene di salutare penitenza; perö tutto questo non toglie il divario fra i due concetti. In ogni modo Dante ci mostra chiaramente come le anime partecipino, attive, alprocesso di purificazione. Una prova di ció 1 abbiamo nell'intero Purgatorio. Citerö, fra i molti, un unico esempio: in sul principio le tentazioni esercitano ancora il loro potere sulle anime, ma con 1'aiuto di Dio esse vincon la prova. Ma vincono con la preghiera (Purg. VIII, 13—39). Nel Purgatorio di Dante tutto è vita e moto, non stato di attesa passiva. Tali dÜferenze dogmatiche, di cui diamo qui questo solo esempio perchè si riconnette con una parte importantissima alla Divina Commedia, impedirono anche in tempi posterioriun piü intimo contatto, maggiori rapporti fra Dante e la Grecia. Persino nel secoio XIX, quando i popoli si vedevano divisi piü fortemente dal nazionalismo che non dalle loro convinzioni in fatto di fede, si poterono constatare strascichi delle summentovate differenze dogmatiche. Nel periodo della nuo va letteratura greca, la quale, piü della cretese, subiva l'influenza italiana, nel periodo, or dunque, della massima fioritura delle lettere greche nelle isole Joniche (nella meta, cioè, del secoio XIX), noi vi incontriamo di Dante una ben minore conoscenza di quello che a ragione ci fosse lecito aspettare, segnatamente se consideriamo non soltanto il grande poeta, ma ancora il patriotta ardente, il profeta dell'unita della Patria. Non mancano perö le traduzioni del divino Poema, le quali, massime verso la meta del detto secoio XIX, vanno facendosi alquanto numerose. Grandi poeti, comè Andreas Kal vos (1796—1869) e Valaoritis (1824—1879), hanno voltato in greco solo singoli episodi. Valaoritis tradusse la storia di Ugolino della Gherardesca dal XXXIII canto dell'Inferno. Altri, fra cui Kallos e Rhangabè, si dedicarono a determinate parti della Commedia dantesca. Vennero poi piü tardi Vergotis (1865 e 1899), Maurokephalos (1876), Mousouros (1882, che scrisse in un greco accademico e classicizzante), Kalosgouros (1900), Zouphres (1906). Tutti questi traduttori si limitaronoaUInferno dell'Alighieri, e quasi sempre a una parte di detta cantica. Ci è nota una sola traduzione integrale della Divina Commedia: quella di Voutsinas (editain Atene, s.a.), probabilmente nello scorciodel secoio XIX, o in sul principio del XX. Questa perö è una versione inprosa, e, da quanto sembra, una edizione popolare. Noi la conosciamo solo per averla vista citata un paio di volte. Non ci è nota invece alcuna traduzione integrale in versi del Purgatorio, nè del Paradiso. E la causa di un tal fatto 1'abbiamo esposta piü sopra. A ciö, dato il poco odierno interessamento per la dogmatica, puö aver contribuito una ragione di natura, diremo cosi, esteriore: la difficolta di conservare nella lingua greca la forma del verso dantesco. Un poeta greco, Laskaratos, nel suo trattato sulla moderna metrica greca (trattato che chiude il volume delle sue Poesie, Atene, 1916) dice senz'altro: „Gli endecasillabi non sonopossibiÜnellalingua greca" (pag. 179). Unpo' troppo assoluto è il giudizio, ma sta il fatto che gli endecasillabi s'incontrano ben di rado nella letteratura neo-ellenica. Le traduzioni poeticke da me piü sopra menzionate sono tutte in versi di quindici sillabe (versus politici), tranne quella di Mousouros in dodecasillabi, e quella di Kalosgouros in versi di tredici sillabe. In generale al traduttore greco occorrono versi piü lunghi di quelli che vuole tradurre. Shakespeare e Molière sono voltati in greco, ma ambedue in „versus politici"; Eftaliotis, che nella sua traduzione di „TheCloud" dello Shelley, si studiadi conservare piü fedelmente che gli è possibile la forma dell'originale, alterna versi brevi a versi lunghi e la rima interna del poema inglese, perö si puö constatare che i suoi versi principali hanno un numero di sillabe maggiore dei versi corrispondenti del poeta inglese. Le parole greche e le forme grammaticali del greco hanno piü sillabe delle loro equivalenti neuelinguegermaniche e nella lingua francese. La lingua italiana avvicinasi, sotto questo punto di vista, al greco piü delle lingue germaniche, ma anche per 1'italiano il traduttore greco stenta non poco atrovarspazio sufficiënte, sempre, si capisce, ch'egli intenda conservare nella versione la medesima forma. Noi vediamo infatti il traduttore della „Teseide" del Boccaccio (vedi pag. 57) sostituire all'endecasillabo il verso di quindici sillabe. Quale piü arduo compito non sara quindi tradurre in terzine greche il poema di Dante, nel quale non solo la potenza del dire costituisce addirittura la disperazione di ogni traduttore, ma la lingua stessa presente tante numerose abbreviazioni, massime nella forma dei verbi! Ed è appunto la forma che in Dante assume un significato cosi straordinario, cosi simbolico; apportarvi un qualunque mutemento equivale a rinunziare a qualcosa di essenziale. Kalosgouros, che traduce in terzine sciolte e in versi ditredici sillabe, pare a noi che piü di ogni altro s'awicini alToriginale, pur essendo anche lui costretto arinunciare al simbolismo della forma. Eppure possiam dire che, quantunque ci manchi ancor sempre una traduzione integrale della Divina Commedia, evidente appare per molti segni l'influenza di un tale capolavoro di poesia nella nuova letteratura ellenica che si puó chiamare 1'ateniese. E valga per tutti questo unico esempio che qui per finire citeremo. II piü grande poeta vivente della Grecia, KostisPalamas (nato nel 1859), mostra, attraverso tutto 1'arte sua, una tale affinita con „1'Altissimo Poeta" d'Italia, che non puö essere dubbia la sua profonda ammirazione per Dante, quand'anche egli non ce 1'avesse numerose volte chiaramente manifestata. D. C. HESSELING 5 UN NUOVO RITRATTO DI DANTE Iritratti di Dante sono sempre stati 1'argomento di discussioni non meno appassionate che interessanti. II solo ritratto riconosciuto dall'opinione generale è quello al Bargello, dipinto da Giotto, amico e contemporaneodi Dante. E' 1'efflgie di Dante giovane, con i noti tratti cosi caratteristici: il naso aquilino, il mento sporgente, la bocca energica, il volto sofruso di freschezza giovanile e di dolce melanconia. Un altro ritratto, non meno autentico, perduto perö, era quello di Taddeo Gaddi a Santa Croce. Deve essere stato il prototipo del Dante dei secoli posteriori, del Dante vecchio. Fra quel Dante vecchio di Taddeo Gaddi e il giovane di Giotto mancava il ritratto intermedio, del Dante, cioè, nel pieno della sua vïrilitè. Qualcuno ha creduto di trovarlonell'uomoin preghiera dell'Inferno dell'Orcagna alla cappella Strozzi a Santa Maria Novella; altri in una figura del Paradiso, nella stessa cappella. Sono delle identiflcazioni assai sospette, di maniera che non ci resta come ritratto del secoio XIV altro che quello al Bargello. _. . Al secoio XIV Dante non era soltanto il poeta della Divina Commedia, era la Divina Commedia stessa, senza la quale non losipoteva immaginare. I pittori lorappresentarononelle scène dell'Inferno e del Paradiso. II Boccaccio fu il primo al quale Dante si riveló in tutta la sua grandezza. Fu il Boccaccio, infatti, che primo spiegö il divino poema al popoio fiorentino, e fu lui stesso che rimproverava, con parole di amore edidolore, alla citta di Firenze di non saper degnamente onorare il figlio suo piü grande, e la scongiurava a ricuperarne le cenerie acustodirle con cura generosa e religiosa. L'opera nobilissima e sapiente del certaldese molto valse a far rinascere piü tardi il culto nazionale di Dante, culto che si riflètteva nella letteratura e nelle arti. . . II nome del poeta, non piü la sua anima, ispirava gh artisti. Dante era un poeta, come i poeti dell'antichita, come le Sibille. I tratti, il vestimento, erano ispirati piuttosto dalla pittura che dalla letteratura. II dettaglio della barba nella descrizione famosa del Boccaccio —- dettaglio tanto importante per un ritratto — manca nelle rappresentazioni. La figura di Dante dipinto da Andrea del Castagno nella serie della Villa Pandolfini a Legnaia — ora nel con vento di S. Apollonia — mostra che 1'artista ha seguito coscienziosamente tutt'un insieme d apparizione esteriore. La figura del Poeta reca il libro. Si vede la stessa cosa nel busto di Dante dipinto da Benozzo Gozzoli a San Francesco di Montefalco. La sorpresa è grandissima quando si rivela di nuovo il vero Dante, il gran poeta, nel Diluvio di Paolo Uccello.alChiostro Verde di Santa Maria Novella. La statura è d'una calma maestosa nel mezzo del delirio universale. La struttura energica della testa: il naso aquilino, il mento lungo e sporgente, il sopracciglio largo, la fronte rugosa, la pelle lavorata — è la stessa del bronzo del museo di Napoli; la testa soltanto è un poco piü eretta. Invece del berretto convenzionale che il Castagno aveva copiato, 1'Uecello panneggiava la figura del poetad'un gran cappuccio, d'un mantello ampio. Lo panneggiava come Masaccio panneggiava i suoi personaggi di vestimenti larghi all'antica. Ma la differenza piü grande fra le figure dell'Uccello e del Castagno è quella dell'espressione. Presso 1'Uccello non era necessitè d'indicazione esteriore: la figura vive da se stessa edoltrepassa il solito merito d'assomiglianza. Nel mezzo del tumulto generale Dante, solo, calmo, quale un Dio, fa un gesto della mano destra, per dire quanto è vana la rivoltadell uomo contro la natura; lui, il filosofo che scruta nella lontananza, che sente tutto, lui, 1'anima del genio, alla quale s'aggrappa l'uomo sommerso, errante e misero, lui, il poeta che soprawive quando tutti periscono nel diluvio universale. II ritratto del Dante di Paolo Uecello è tanto grandioso che meritava invero d'essere scoperto molto tempo prima. J. GOEKOOP-DE JONGH DANTE E CIMABUE Non lungi daU'ingresso del Purgatorio Dante trova le anime di coloro chepeccaronodi superbia contro Dio. Laloro superbia non fu giustificata, giacchè sulla terra una gloria è ben presto oscurata da altra gloria, e dopo la morte i super bi devono quindi subirne 1'orribile castigo. Piegati e rannicchiati sotto grandi massi di pietra debbono trascinarsi innanzi a lenti e f aticosi passi. Al primo incontro di Dante con quelle anime una di esse paria al poeta. E'dessa 1'anima diOmberto Aldobrandeschi dei conti di Santafiora, uno dei piü grandi signori del tempo suo; ma ora il suo discorso è tutto improntato ad una grande umilta. Ascoltando, Dante chinasi su colui che paria e in quella positura è riconosciuto da un'altra anima purgante la quale dice il nome dell'Alighieri. E'Oderisi da Gubbio, miniatore di manoscritti. L'Alighieri, con un certo tono di esagerazione e di ironianelle parole, risponde a quel nome rivolgendo a sua volta una domanda: Non se' tu Oderisi, L'onor d'Agobbio, e 1'onor di quell'arte, Ch'alluminare è chiamata in Parisi?(Purg. XI, 79-81). Ma Oderisi respinge un tanto onore: non egli è il primo nel1'arte sua, ma bensï Franco da Bologna, e „piüridonolecarte che dipinse tal miniatore. Qui Dante pone sulle labbradi Oderisi le note considerazioni sulla vanita della gloria. Dante si lascia trasportare dalla parola. Se Oderisi conttnua il suo dire, ütono è perö mutato, e piü non si paria di miniatori, ma solo di rappresentanti della grand arte. Quanto presto, dice il poeta, vien meno la celebrita dei sommi in qualunque arte, se non soprayvengono tempi piü grossi e rozzi, quando 1'arte declina. Solo perció si a lungo dura la gloria dell'arte antica. La decadenza sola fa desiderare i buoni che furono. Ma nei tempi di Dante non è affatto questione di decadenza: Credette Cimabue nella pittura Tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, Si che la fama di colui è oscura. (Purg. XI, 94-96). Se questo è il caso dei pittori, altrettanto puö dirsi degli artisti della parola: Cosi ha tolto 1'uno all 'altro Guido La gloria della lingua; e forse è nato Chi 1'uno e 1'altro caccera di nido. (Purg. XI, 97-99). La gloria terrena è come un nato di vento, che spira ora da questo ora da quel lato; ora tal vento chiamasi Scirocco ora Tramontana, muta solo di nome perchè muta di direzione. I versi suddetti, nei quali Dante paria dei pittori del tempo suo, sono di somma importanza per la storia dell'arte. Queste e terne terzine non segnano soltanto 1'inizio della critica scrittasull'arte a Firenze, ma costituiscono in pari tempo il piü importante documento circa 1'origine della pittura fiorentina e circa il piü antico pittore che noi di quella prima epoca conosciamo: Cimabue. I versi di Dante porgono infatti la base sulla quale ci studieremo di rappresentarci Cimabue e 1'arte sua. Val dunque e per certo la pena di riflettere attentamente e comprendere ü preciso significato di tali versi, veder quali deduzioni ne possiam trarre per la conoscenza della storia dei piü antichi pittori di Firenze. E' mestieri anzitutto soffermarci su quello che di Cimabue ê dato di sapere da altre fonti. Di lui, lo diciamosubito, sappiamo relativamente poco. Da documenti del tempo risulta ch'egli fu a Roma nel 1272 e che nel 1301 e 13021avorö a Pisa. Ivicompose la figura del San Giovanni nel mosaico del Duomo; nel 1302 lo si dice ancora a Firenze. In uno di tali documenti si cita pure il suo nome: „Magister Cenni dictus Cimabu, pictor de Florentia, de populo Sancti Ambrosii"1). Cimabue dovette esser gia morto quando Dante scrisse di lui, giacchè non è da ammettere che il poeta si valesse del nome del pittore, ancora vivente, come prova della caducita della gloria. Abbiamo inoltre la vita che di Cimabue lasciö scritta il Vasari, e che apre la serie delle sue biografie. Storici dell'arte, come il Venturi, come il Frey, come 1'autore dell'articolo su ') I documenti e gli altri dati su Cimabue trovansi raccolti in: A. Venturi, Storia dell'arte italiana, V (1907). 195-242; e in: Karl Frey, Edizione di Vasari, I (1911), 406-462. Cimabue nel recente lessico degli artisti'), si sono tutti valsi di tale biografia come di base nei loro studi sul pittore fiorentino. Eppure Wickhoff2)- ebbe gia da un pezzo a dimostrare che questa vita del Vasari altro non è che il punto terminale di un lungo periodo di sviluppo, per il quale si venne ad aggiungere una serie di particolari novellistici a tutti quei dati che si vollero dedurre dai versi di Dante e dai loro commentatori. Filippo Villani chiama Cimabue gia il primo dei grandi pittori florentini. II Ghiberti invece non lo considera neppure quale un valente maestro per lo sviluppo della pittura. La piü antica biografia di Cimabue trovasi nel noto manoscritto aFirenze, il quale comprende una storia degli artisti italiani3). Di tale manoscritto si valse Vasari per la sua vita di Cimabue, che nella seconda edizione egli mutó, ampliandola. Tra i commentatori dianzi citati della Divina Commedia4), e che ci offrono le prime notizie su Cimabue, troviamo Tunica notizia, che pare rivesta un significato indipendente, tutto a sè, nel „Commento alla Divina Commedia d'Anonimo Fiorentino", opera che data gia dallo scorcio del secoio XIV. In essa leggiamo infatti: I. „Cimabue fu da Firenze", notizia questa confermata dall'altra che „ancora sono ivi suoi discendenti". — II. Cimabue era „grande e famoso dipintore, tanto che al tempo suo non si trovava maggiore maestro di dipingere". Puó anche darsi che tutto ció si sia dedotto dalle parole di Dante. — III. Cimabue „fu maestro di Giotto dipintore". E' questa una notizia che non si puö, come crede il Wickhoff, far senz'altroderivare dalle parole di Dante. — IV. Opera del Cimabue fu„unopalio fra gU altri notabile di maisterio in Santa Maria Nuova di Firenze". Questa è la prima volta che viene indicato un quadro di Cimabue, e su tale notizia noi possiamo meglio formulare il nostro giudizio; giacchè trattasi qui senza dubbio della stessa opera ch'è pure menzionata tra quelle di Cimabue, delle quali 1 Martin Wackernagel, presso U. Thieme, „ Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler". VI (1912', 597-603. 2) Fr. Wickhoff, „Ueber die Zeit des Guido von Siena", Mittheilungen des Instituts für Oesterreichische Geschichtsforschung, X (1889), 244-286. *) Firenze, Biblioteca Laurenziana, Codex Magliabecchianus, XVII, 17, edizione di Karl Frey(1892). *) Tutti raccolti da Baldinucci, Opere, IV (1811 \ pagg. 23* segg. paria il manoscritto di Firenze piü sopra citato j „... in Firenze una nostra donna grande in tavola nella chiesa di Santa Maria Novella accanto alla cappella de'Rucellai"; tale quadro trovasi tuttora nel braccio destro della crociera della detta chiesa ed è noto col nome di „Madonna Rucellai".1) Ma dinanzi a tale notizia rimane alquanto scossa quella fede ch'eravamo inclini a prestare aU'Anonimo Fiorentino, inquantochè la Madonna Rucellai presenta moltissima analogia con la Maesta dipinta per il Duomo di Siena da Duccio di Buoninsegna, pittore Senese. Inoltre ci è autenticamente noto che la Fraternita ordinö, per la chiesa di Santa Maria Novella, nel 1285, a Duccio la „tabulam magnam" decorata dalla „figura beatae Mariae Virginis et ejus omnipotentis Filii et aliarum figurarum". Senza dubbio differenze innegabili esistono tra la Maesta, compiuta nel 1311, e la Madonna Rucellai, ma queste differenze possono certamente risultare da un cambiamento nella maniera, se si tien conto del tempo che trascorre da un'opera all'altra. Con tutta probabilita, or dunque, la Madonna Rucellai è dovuta a Duccio e non a Cimabue.2) Di non molto valore è, quindi, per noi 1'autorité della notizia contenuta nel commento in parola. Molto importante è invece quanto ci dice il Ghiberti.3) Nel suo „Secondo Commentario", scritto verso la metè del secoio XIV, cosi principia: „Cominció 1'arte della pittura a sormontare in Etruria in una villa allato alla citta di Firenze, la quale si chiamava Vespignano "; era desso il luogo natale di Giotto. Egli „arrechö 1'arte nuova; lasciö la rozzezza de'Greci". Ma Cimabue „tenea la maniera greca, in quella maniera ebbe in Etruria grandissima fama". Tale affermazione è dovuta senza dubbio alcuno alle parole di Dante. Ghiberti considerava adunque Cimabue come 1'ultimo rappresentante di un'arte che sta va tramontando. II1300 segna una netta divisione: la nuova arte comincia con Giotto. ^Venturi, Storia delïarte italiana, V (1907), pagg. 63-80. *) Tale £ pure il giudizio di: Curt H. Weigeit, „Duccio di Buoninsegna" (191 \); contro invece: W Suida, „Die Madonna Rucellai", Jahrbuch der Preuszischen Kunstsammlungen, XXVI f1905), 28-39; cfr.: Ralmondo van Marle, „La pittura senese prima di Duccio", Rassegna d'Arte Antica e Moderna, VU (1920), 265-273. *)). von Schlosser, „Lorenzo Ghibertis Denkwürdigkeiten", Kunstgeschichtliches Jahrbuch der Zentral-Kommission für Erforschung der Denkmale, IV (1910), 105-211, con una riproduzione del manoscritto, cod. Magliabecchiano XVII, 33. Non altrimenti giudica il Vasari nelle vite di Cimabue e di Giotto, e non possiamo perö dire con certezza che Vasari faccia cominciare un* nuovo periodo per la pittura con Cimabue. Egli apre la serie delle sue biografie con Cimabue, perchè il nome di questo pittore fu il piü antico che conosceva, e,a parer suo, 1'arte cominciö appunto da Cimabue lentamente a svilupparsi e a salire per raggiungere 1'apice suo con Michelangelo. Dalle sue parole emerge perö chiaramente che per lui, Vasari, Giotto aveva un tutt'altro significato da quello di Cimabue. Quando Cimabue nacque, dice il Vasari, „era spento affatto tutto il numero degli artefici". Cimabue imparó 1'arte sua dai greci che lavoravano in Firenze.1) Ma questi greci non dipingevano „nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di quei tempi". Tale era almeno il giudizio del Vasari, il quale non capiva e quindi non poteva apprezzare 1'arte bizantina, le cui opere avrebbero dovuto, secondo 1'opinione del tempo suo, scomparire, e tanto meglio quanto piü presto, evenir sostituite da opere dell'arte nuova. A quest'arte bizantina apparteneva pure ancora Cimabue, ma „sebbene imitö quei Greci, aggiunse molta perfezione nell'arte, levandole gran parte della maniera loro goffa".2) Giotto perö ebbe a superare e di molto Cimabue, e come prova di ciö Vasari cita i versi di Dante. In Italia, dice egli, Cimabue fu „quasi prima cagione della rinnovazione dell'arte della pittura; Giotto nondimeno suo creato, mosso da lodevole ambizioneedaiutatodal cielo e dalla natura, fu quegli che, andando piü alto col pensiero, aperse la porta della verita a coloro che 1'hanno poi ridottaa quella perfezione e grandezza, in che la veggiamo al secoio nostro". E altrove dice il Vasari: Giotto „aiutato dalla natura ed ammaestratoda Cimabue, non solo pareggiö la maniera del maestro suo, ma divenne cosi buono imitatore della natura, che sbandi affatto quella goffa maniera greca, e resuscitó la moderna e buona arte della pittura". Ora, secondo Vasari, Cimabue non fu il fondatore di una nuova scuola di pittura, ma il maestro che introdusse in Italia ') Vasari dedusse ciö da una sua errata interpretazione delle parole del Ghiberti. ') Anche in tale concetto su Cimabue, quale pittore di vaglia, si puö riconoscere l'influenza delle parole di Dante. „quella goffa maniera greca". Solo Giotto „aperse la portadella verita". Come Dante nella poesia, cosi Giotto e Giovanni Pisano furono gli artisti che diedero la nuova arte e non Cimabue, Cavallini, Niccola Pisano o Duccio. E in tal senso Vasari ha perfettamente ragione, giacchè è appunto con Giotto, come ebbe gia a dire Ghiberti, che cominciö un nuovo periodo per la pittura italiana. Giotto fu il fondatore di un nuovo stüe. L'essenziale si è qui la composizione che è concepita come una unita concentrata. In Giotto, invero, ogni figura, ogni gesto, ogni parte dei panneggiamenti e del paesaggio non ha soltanto importanza per la cosa rappresentata, ma benanco ogni parte accessoria ha il suo valore nella composizione del lavoro ed è destinata a compiere una funzione, a completare cioè quell'impressione d'insieme, voluta dall'artista. In tal guisa la pittura di Giotto è in realta la rappresentazione di una parte dello spazio, veduto e costruito come un'unita organica. Gia anche 1'arte classica avea conosciuto una tale composizione concentrata; 1'arte gotica poneva, è vero, le figure semplicemente 1'una accanto aü'altra, ma ad ognisingola figura quest'arte sapeainfondere una forte vita. Con 1'unione della composizione classica al naturalismo gotico Giotto assurse a fondatore della moderna arte pittorica. Ed è cosi ch'egli assume nella pittura quell'importanza che Dante assume nella poesia. Non dobbiamo perö d'altro canto dimenticare che gia fin dal Duecento preparavasi 1'arte di Giotto; e non soltanto nelTarte che precedette immediatamente Giotto, che, se si vuole, si potrebbe ricollegare col nome di Cimabue, ma anche nell'arte piü antica trovansi di gia dei principi dell'arte nuova che Giotto porterebbe di poi a un suo primo compimento. L'affermazione del Vasari, secondo cui prima di Cimabue non ci sarebbe stato in Italia alcun artista e 1'arte sarebbe stata soltanto da lui, Cimabue, presa dai greci, è affermazione che non puö avere il menomo fondamento. Appunto per dimostrare una tale infondatezza Wickhoff scrisse la sovra menzionata trattazione su Guido da Siena, pittore della prima meta del secoio XIII. Ben poco è ciö che noi sappiamo intorno all'arte anteriore a tal epoca. Anche le notizie che abbiamo su Cimabue meritano, come ricordammo dianzi, una fede relativa. Epperciö grande è 1'importanza che rivestono le parole che Dante dedica a Cimabue e che ci si presentano quale un giudizio personale del poeta sul pittore. Piü che necessario, indispensabile è quindi che noi ci soffermiamo a bene considerare i versi dell'Alighieri. E parleremo anzitutto delle differenti persone cui accennanodetti versi, dei rapporti fra le stesse e dei loro rapporti con Dante1). II poeta cita subito due miniatori. Di nessuno di questi due noi sappiamo con sicurezza piü di quello che Dante di loro ci dice: Oderisi si considera lui stesso come il mighor miniatore del suo tempo, ma la sua gloria è vinta da Franco da Bologna che probabilmente fu suo discepolo, come si puö agevolmente dedurre dalle parole di Dante. II Vasari li cita nella vita di Giotto, come cita pure i versi in cui Dante fa i loro nomi; ci lascia inoltre qualche notizia particolare sui due, ma non sembra che si possa prestar troppa fede alle sue affermazioni. Non ci sono note opere di questi due miniatori, poichè nessuna ragione di essere ha la supposizione che ambedue i „Messali" nella canonica di San Pietro di Roma possano essere dovuti ad Oderisi. Probabilmente il loro nome sarebbe dimenticato gia da secoli quando non fosse stato immortalato da Dante. Ambedue i miniatori sono, diremo, un po' segregati e formano quasi 1'esordio alle considerazioni che seguono. Vengon perö subito dopo in diretta connessione i due pittori, Cimabue e Giotto, e tre poeti, Guido GuiniceUi, Guido Cavalcanti e un terzo, il quale forse caccera i due Guidi dal loro nido di gloria. Si pensö, è vero, ad altri Guidi, oltre a quelli da noi citati, ma se 1'Alighieri parló di due Guidi, poeti famosieprimeggianti nella „gloria della lingua", questi non potevano essere altri che il fiorentino amico suo, Guido Cavalcanti, e quel bolognese, Guido GuiniceUi, 1'autore dei versi: Che, quanto durera 1'uso moderno, Faranno cari ancora i loro inchiostri. (Purg. XXVI, 113-114). Guido GuiniceUi fu il primo poeta del suo tempo, e quando Dante •) Cfr. in proposito le polemiche fra: M. Dvorak, Kunstgeschichtliche Anzeigen, 1911, 94-95, e 1913, 75-83; F. Rintelen, Monatshefte für Kunstwissenschaft, VI (1913), 200-204, e,X(1917), 97-113; vedipure:]. vonSchlosser, Kunstgeschichtliches Jahr1»ch,rV(1910), 118-123, e, Sitzungsberichte der Wiener Akademie, 177, 3 (1914), 48. intraprese il viaggio nei regni d'oltretomba Guido Cavalcanti tenevasi per insuperabile; ma neppure la gloria di quest'ultimo sarebbe a lungo durata, e Dante, per spiegar ció chiaramente, nominati che ebbe i due Guidi, getta uno sguardo nel futuro: forse un terzo poeta è giè nato che offuschera il Cavalcanti, come questi offuscö il GuiniceUi. — „Qui intende 1 autore di sè medesimo", come dice Jacopo della Lana. Tali parole di Dante suonano quale una supposizione, poichè soltanto Dante poteva sapere che stava giè sorgendo un'opera poëtica che avrebbe offuscato tutta 1'arte dei Guidi, e non v'ha dubbio ch'egliaveva piena ragione di parlare in tal modo di sè, egli il poeta della Commedia, del poema che esalta e commuove da sei secoli, egli che poteva bene a diritto far parte, quale sesto, della nobilissima schiera dei poeti: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio. Nel paragone dantesco vediamo, or dunque, messi di fronte due pittori e tre poeti. E' certo di grande importanza poter conoscere il pensiero di Dante sui reciproci rapporti di questi differenti personaggi. Si è, tra altro, affermato che Dante considerasse Cimabue come il predecessore di Giotto, come i due Guidi, i precursori dell'arte sua propria. Guido GuiniceUi moriva gia nel 1276, Guido Cavalcanti nel 1302, ed è appunto da quest'ultimo anno che datano le ultime notizie su Cimabue. In tal caso si crederebbe che Dante volesse porre Cimabue allo stesso livello dell'immediato suo proprio predecessore e amico Guido Cavalcanti. Ma tale concetto non puö reggere, giacchè allora 1'arte trionfatrice di Giotto verrebbe paragonata a un ipotetico poeta, del quale nessuno potea ancora sapere nulla di assolutamente certo. Piü probabilmente il paragone mette di fronte 1'uno all'altro, prima i due pittori e poi i due poeti Guidi, concludendo con uno sguardo nell'awenire econ riferimento all'opera poëtica che piü tardi offuschera tutte leprecedenti. Dal fatto dunque che Cimabue e Guido GuiniceUi sono posti 1'uno accanto all'altro, si potrebbe dedurre che Dante stimasse questo pittore cosi altamente come stimava il poeta che lui stesso chiama: „il padre mio e degli altri miei miglior", ü capo della schiera onorata e gloriosa da cui è nato lo stile di cui Dante stesso si gloria. — Ma tutti questi chiarissimi nomi di artisti non sono piuttosto presentati, come si ebbe gia ad osservare'). esclusivamente come esempi senza un proprio significato o una propria figura? I versi di Dante non son forse da concepirsi scolasticamente ed eticamente invece che umanisticamente e storicamente? Non paria qui Dante forse soltanto della vanitae fugacita della gloria terrenache, come il vento, cambiadi nome, a seconda del gioco della fortuna, e trionfa su ogni individualita? Non pone qui il poeta 1'arte al di sopra di tutti gli artisti?— Un tale concetto è perö erroneo, poichè Dante sa benissimo che 1'arte esiste esclusivamente per virtü delle persone e nelle persone medesime. Ció emerge chiaro non solo dalle parole: „se non è giunta dall'etati grosse", le quali debbono comprendersi solo storicamente, ma anche dalle altre: „piü ridono le carte" che dipinse Franco da Bologna, parole queste ultime che esprimono un sincero è chiaro apprezzamento personale dell'artista e dell'arte; ciö confermano pure altre espressionidi cui Dante si vale, come ad esempio: „tener lo campo; aver Ü grido; cacciar di nido". E qui noi vediamo insieme commisti, in maniera sommamente caratteristica, concetti medioevaliscolastici e umanistici storici. Dante ci offre qui realmente il suo proprio giudizio sul vecchio e sul nuovo stile2). Le parole del divino poeta costituiscono quindi per noi una base certa e fidata per una nettaintelligenzadell'operadi Cimabue. Ció fu capito fin dalla Rinascenza, e Cimabue dovette in quel tempo la sua gloria, cosi come 1'antico Policleto, ai versi della Divina Commedia. Vere notizie su Cimabue i tempi immediatamente dopo Dante, non ce ne offrono ormai piü. Tutto quello che di lui si racconta altro non è che pura leggenda. Ma noi dobbiamo distinguere tra le notizie vere e 1'interpretazione che vi si volle dare. Cimabue, senza dubbio, non era una figura leggendaria, e per la storia dell'arte certo egli riveste una reale importanza. Secondo Dante, che ne conosceva e apprezzava 1'arte, Cimabue fu il maggior pittore del periodo che precedette Giotto. Se ») Karl Vossler, „Die göttliche Komödie". II 2(1910\ pag. 1118idtatoeaccettatoda Dvorak, Kunstgeschichtliche Anzeigen, 1913, pag. 79. -) Rintelen, Monatshefte für Kunstwissenschaft, X, 106. ció non fosse, nessun significato avrebbero i versi che di lui parlano nella Divina Commedia. Dante lo stimava cosi altamente come stimava Guido GuiniceUi, e lo si deduce dal fatto che Cimabue nei versi danteschi ci si presenta in un gruppo di persone d'ugual valore, tra le quali si poneinfineil poeta stesso. L' Alighieri vedeva inoltre nel pittore come una parte di quel movimento artistico che mirava vigorosamente a salire, movimento che faceva ricordare a Dante lo sviluppo deUa poesia che emanava dalla sua propria arte. Dalle parole di Dante non devesi quindi affatto dedurre che il poeta considerasse Cimabue come un rappresentante senza alcun significato, e giè quasi dimenticato, delle sopraffatte direttive della precedente generazione. Un netto distacco tra 1'arte di Cimabue e quella di Giotto, come vide il Ghiberti, in Dante invano si cercherebbe. & sarebbe piuttosto inclini a pensare che Dante giudicasse Cimabue quale immediato predecessore di Giotto, a somiglianza di Guido GuiniceUi rispetto a Guido Cavalcanti. Dai versi della Divina Commedia si potrebbe in certo modo arguire che Cimabue fosse il pittore che apportö del nuovo nella pittura fiorentina, cosi come GuiniceUi fu ü fondatore della nuova arte poëtica, del „dolce stil nuovo". Tale fu pure 1'opinione del Vasari, al quale noi non sapremmo in verita dar torto. Certo, v'erano in Italia pittori piü vecchi di Cimabue, ma puö ben darsi che in un nuovo esame della pittura anteriore a Giotto si possa incontrare un gruppo da porre in diretta connessione col nome di Cimabue, e che quindi in tali opere si possano scoprire gli elementi che prepararono lo stile di Giotto. E non occorre attenderne la prova da nuovi documenti, giacchè, nel periodoimmediatamente anteriore a Giotto, se ben si considerino i versi di Dante, qualora ci sia dato di scoprire una notevole personalitè, dessa non puö essere che quella di Cimabue. Ma si deve d'altro canto proceder cauti per non spingere troppo innanzi ü parallelo tra i pittori e i poeti ricordati da Dante. Se questi infatti avesse proprio intesoinsistere sul paragone fra Giotto e un poeta, avrebbe potuto porre unicamente la propria opera poëtica a lato dell'arte interamente nuova di Giotto. Tale è almeno il caso qualora si consideri la pittura fio- rentina, come ora noi la consideriamo, e cosi nei tempi che vennero subito dopo 1'Alighieri molta importanza annettevasi alTarte di Giotto. Ciö che evidentemente Dante non fece.altrimenti non avrebbe potuto mettere i due Guidi di fronte ai due pittori. Anche questa osservazione ci puö essere di grande importanza in un giudizio suil'arte di Cimabue e ci potrebbe forse rappresentare sotto un nuovo aspetto la piü antica pittura fiorentina. In tal guisa la nostra mente corre sempre edi nuovo allo speciale significato deü'unica comunicazione lasciataci in proposito dal poeta. Unica è infatti tale comunicazione; giacchè questa èla prima volta che ci è dato di scorgere i segni del rapporto personale di un artista della parola con un artista della visuale, ed è pure la prima volta questa che noi udiamo parlare con cognizione e con stima dell arte del proprio tempo. Neppure nell'antichita riscontriamo un tal fatto: se Aristofane paria di Euripide, il grande drammaturgo del tempo suo, egli piü che altro mira a diminuirne la fama di fronte all antiquata opera di Eschilo. E quando, nell'epoca ellenistica, si cominció a scrivere di arte, se ne vedeva 1'apogeo non nel proprio tempo, ma nel periodo di Alessandro Magno col pittore Apelle e lo scultore Lisippo. L'arte del proprio tempo era alquanto inferiore e 1'artista consideravasi un semplice lavoratore. Ma nei tempi di Dante le cose stanno ben altrimenti: vedonsi insieme uomini di stato, pittori, poeti, e l'arte segue rigogliosa la sua via ascensionale. E' noto quanto arduo riesca veder 1'apogeo dell'arte nell'arte del proprio tempo di fronte all'arte del passato. Ciö è possibile solo in tempi di rapido progresso. Cosi fu nei tempi di Dante, nei quali non solo avevasi la sicurezza che la nuova poesia o la nuova pittura superava le anteriori, ma si era eziandio convinti che le creazioni artistiche del proprio tempo poteano rivaleggiare con l'arte dell'antichita. — Se Virgilio è „maestro e autore", accanto gli sta, da eguale, Dante. A. W. BYVANCK LA DIVINA COMMEDIA E LA MAGNIFICENZA DELL'ARTE INTORNO AL TRECENTO Verso la fine del secoio XIII — cioè ai giorni di Dante — le belle arti raggiunsero in Italia uno sviluppo grandioso, che appare tanto piü interessante in quanto è si la conseguenza d'una progressione graduale, ma al tempo stesso esprime come un inatteso scoppio di possenti energie. Si nota dal sesto secoio, quando in Roma furono decorate le chiese greche di San Saba e Santa Maria Antica con affreschi di stile bizantino, una linea dapprima in discesa fin al 1100, quindi lentamentesaliente, per assumere, verso il 1300, un' ascesa erta e rapida. Le forze di impulso non cambiano, ma la curva verso 1'alto si pronuncia in modo sorprendente. La ricostituzione artistica comincia a Venezia ed in Sicilia, ove le arti conducevano un' esistenza alquanto appartata dal resto d'Italia e in contatto continuo con la coltura bizantina. Poi il movimento si estende, man mano che l'arte, nell'alta Italia, comincia a sviluppare, intorno al 1200, una propria attivita sopratutto plastica, sotto 1'influsso provenzale; ma il movimento rimane anzitutto inetto, nè il risveglio si manifesta generale. Benedetto Antelani eseguiva a Panna le sue notevoli sculture (11%—1216) appunto sotto 1'influsso dalla Provenza, e lo stesso influsso si osserva gia nel rilievo sopra 1'ingresso di Sant'Andrea a Pistoia, opera del maestro Gruamons e del di lui fratello Adeodato (1166). Ma il candelabro pasquale di Nio colö d'Angelo e Vassaleto, che è nella chiesa di San Paolo di Roma ed appartiene allo stesso periodo (1180), dimostra chiaramente l'impotenza degli artefici dove gli esempi bizantini mancano e gli altri impulsi non arrivano. Quando a Roma si vedono gli affreschi aridi e maldestri della cappella di San Silvestro attigua alla chiesa dei Santi Quattro Coronati, affreschi che furono dipintinel 1246, e poi quelli della medesüna epoca sulla facciata, sotto il portico, di San Lorenzo fuori le Mura, si ha 1'impressione netta che in entrambi i casi i pittori hanno dovuto industriarsi a raccontare le sacre leggende in scène figurate con elementi convenzionali che avevano a disposizione. Manca ogni cenno di ripercussione spirituale o di emozione. E in questo tempo appunto, quando si erigono a Roma i monumenti sepolcrali, volontieri si adoperano i sarcofaghi antichi. Al massimo si fa una modesta aggiunta architettonica, come alla tomba del cardinale Fieschi nella medesima chiesa di San Lorenzo (1256), ma non si trova ancora uno scultore capace di creare un'opera plastica di qualche importanza. Nelle altre regioni d'Italia, durante la lotta flnita coll'annientamento degli Hohenstauf en (1268), l'arte rimane allo stesso livello. II secoio ha fede ardente e contrasti tragici; ha una vita intensa di de vozione, un ferment o di passioni politiche, ma giammai riesce a realizzare liberamente la concezione del bello. Tutto invece si riduceva ad imitare ed applicare le forme bizantine. Queste, nella prima meta del secoio XIII, sono piü preponderanti di quanto lo fossero nelle epoche precedenti. Tutto quel che tecnicamente ha valore conservarimpronta bizantina. II pulpito di Buonamico da Pisa nella cattedrale di Volterra (±1240) fa sorridere, e quello di Guido Bigarelli da Corno nella chiesa di San Bartolomeo in Pantano a Pistoia(1250)mostra buona volonta piü che maestria. Qui gli scultoriaffrontano.èvero, il rilievo marmoreo figurato, ma il risultato rimane non sodisfacente. Perö, e questo è importante, immediatamente dopo costoro vieneNiccolö Pisano, che porta nell'arteper il primo il vero rinnovamento. II suo pulpito nel Battistero di Pisa è del 1260. Accanto agli affreschi in Roma, di cui ho detto sopra (SS* IV Coronati e S. Lorenzo), troviamo inToscanasolo quel cielo curioso di pitture murali nella basilica di San Pietro a Grado presso Pisa. Risalgono alla meta del secoio XIII, e rappresentano scène della vita dello stesso Santo, con figure goffe, dai lineamenti duri. Alcuni rari affreschi di quest'epoca, come gli avanzi frammentari sotto il portico di Sant'AmbrogioaMilano e quelli nella chiesa di San Zeno a Verona, a destra del coro, sono non molto superiori. Nella prima meta del secoio non fucostruitanessunadi quelle chiese monumentali che sono 1'orgoglio d'Italia. Le troviamo 0 anteriori al 1200, o costruite dopo il 1250, come il duomo di Siena (1259), quello di Arezzo (1277), quello diOrvieto(1285), quello di Firenze (1296). Come nell'architettura vi fu questo notevolissimo risveglio, che tanto piü si accentua verso la fine del secoio; anche nella scultura e nella pittura fu raggiunta quellaltezza alla quale in principio ho accennato. Come abbiamo notato, i maestri che circa la meta del secoio XIII furono incaricati di fare i monument! sepolcrali a Roma, non avevano nessun intimo spirito nè alcuna possibilita di creare una buona opera plastica. Le statue dei SS. Pietro e Paolo nel Laterano (± 1250) sono rigide e pesanti, quella di Carlo d Angiö, eretta al Campidoglio nel 1268, non risulta piü felice. 1 primi Cosmati erano maestri flni di architettura decorativa e decorata, perö la loro attitudine non andava al di la di questo. Ma in tale sterile periodo ecco che viene a Roma Arnolfo di Lapo, 1'allievo di Niccoló Pisano, il quale comincia con lo iniziarvi la propria opera di sincera scultura d'arte. II primo monumento da lui eseguito fu quello diRiccardoAnnibaldi(1277), del quale i frammenti bellissimi si ammirano nel chiostro monumentale di San Giovanni in Laterano. Ancora esegui a Orvieto la tomba del cardinale De Bray (1282) eda Roma le due edicole per altare maggiore a San Paolo (1285) e Santa Cecilia(1294). Questa sua attivita gli fruttó la stima dei Cosmati, che lo vollero con loro. Da questa collaborazione sono venutii monumenti del cardinale Anchero in Santa Prassede (1286) e quello pel papa Onorio IV (1287), fatto per la basilica di San Pietro etrasferito poi nella cappella dei Savelli in Santa Maria in Aracoeli. É evidente che del soggiorno di Arnolfo in Roma si avvantaggiö moltissimo l'arte della scoltura. I Cosmati seguendo l'indirizzo del grande artista toscano migliorarono di molto la loro attivita e crearono monumenti anche plastici veramente mirabili, come quello di Guglielmo Durando in Santa Maria sopra Minerva(1296) e di Gonsalvo Rodriguez in Santa Maria Maggiore (1299); del cardinale Matteo d'Acquasparta in Santa Maria j» Aracoeli (1303, Par. XII, 124) e del papa Bonifacio VHI (t 1303) nelle grotte di San Pietro, quest'ultimo piuttosto opera 6 dell'Arnolfo stesso, eseguita vivente il grande ed ambizioso pontefice. Dello stesso tipo è'lo splendido monumento sepolcrale al papa Benedetto IX (f 1304) nel duomo di Perugia, monumento che è tutt'ora in perfetto stato di conservazione, al contrario di parecchi degli altri citati. Come intorno al 1300 b scoltura raggiungeva un altissimo grado di perfezione e di bellezza, ugualmente la pittura la emulava in questa ascensione. Gli affreschi nella basilica sotterranea del Sacro Speco a Subiaco, dipinti dopo la metè del secoio XIII, sono gia ben altra cosa di quelli piü sopra notati delle chiese romane, opere di neanco venti anni prima, e pare quasi incredibile che una distanza altrettanto breve divida questi ultimi affreschi dalle pitture murali illustranti la vita di Santa Caterina, che adornavano la chiesa di Sant'Agnese fuori le Mura e che furono staccati per essere collocati nel museo del Laterano. Sono frammenti, ma perö di somma importanza. E lo sviluppo ancora si accentua. Tolta dalla medesima chiesa è 1'altra serie di affreschi con episodi della vita dei Santi Padri, che segue a brevissima distanza quella giè detta della cappella di Santa Caterina. Questi affreschi devono essere del 1280circa, efanno presentire, nel modo piü evidente e chiaro, l'arte di Giotto. Egli stesso venne a Roma nel 1300 in occasione del primo giubileo ordinato da papa Bonifacio VIII, e fu suo compito di decorare con affreschi la chiesa di San Giovanni in Laterano. Di tale opera esiste ancora ü noto frammento tristemente ridipinto. Ma prima di Giotto era giè stato a lavorare in Roma quel grande dell'arte che fu Pietro Cavallini, il quale nel 1293 dipingeva nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere il superbo Giudizio Universale, di cui tutt'ora si ammirano importanti parti, concezione sublime di potenza individuale. In Santa Maria in Trastevere sono notissimi quei musaici che la tradizione dice eseguiti sopra cartoni del Cavallini (1291) e che infatti vivamente contrastano per la loro forza cogli altri musaici molto inferiori (del 1140) che sono nell'abside della stessa chiesa. E notevole che neanche Cavallini si distacca dalla tradizione bizantina, ma la eleva piuttosto alla piü alta espressione. Ugualmente Giotto, pur essendo devoto alla stessa tradizione1). le ») Cf. Raimond van Marie nella „Rassegna d'Arte", marzo-aprile 1919. p. 80. da un'espressione tutta sua di profondo misticismo e di piü mite spiritualita. Rammentiamo che ü terzo eminente pittore di quest'epoca, Duccio di Buoninsegna, si limita con preferenza a composizioni piü intime, aggruppate in ancone d'altare, in cui lo stile dell'epoca è anima to da quel soffio personalediforte vitalita. In questi tre grandi pittori, ai quali va aggiunto anche Cimabue, vediamo tutto il quadro completo e complesso di questa serena ascensione della pittura. Da pure efficacia alla fine meravigliosa e rapidamente strana del secoio Jacopo Torriti, rinnovatore dell'arte del musaico, che egli trovö declinata e che seppe far rifulgere ad un ultimo e piü brülante sprazzo di luce, che ancora maggiormente fece risentire 1'oscurita dopo di lui sopravvenuta. IITorriti eseguiva, sotto il pontificato di Niccolö IV, la grandiosa abside di Santa Maria Maggiore (finita nel 1295), dove le figure austere, ma piene di vita al tempo stesso, che sono opera sua, come ugualmente la composizione principale, provano che questo frate francescano, che da sè si qualifica „pictor", era un genio creatore nel piü alto significato della parola. Rinno vöpu re il grande mosaico nell'abside della chiesa di San Giovanni in Laterano, che non ha minore fascino. I suoi lavori piü maestosi di quelli, anche significativi, coi quali Filippo Rusuti poco dopo adornava la facciata della Basilica Liberiana, sotto ogni riguardo sono superiori al mosaico del duomo di Pisa (1302), attribuito a Cimabue, ed hanno pregi evidenti anche a paragone dei mosaici ieratici che Andrea Tafi in questa stessa epoca eseguiva nella cupola del Bel San Giovanni. Dante, quando nel 1300venne a Roma anche lui'), certamente ha veduto i superbi capolavori che nel decennio precedente, con un rapido mirabile sforzo, vi erano stati creati, dopo un si lungo periodo di confusione e di impotenza artistica. SuLui, che sapeva piü di qualunque altro apprezzare tutto ció che esprimesse una volonta, una convinzione, un'altissima idealita, queste opere devono certamente aver fatto una profondissima impressione. La sua immaginazione, davanti a quest' arte grandiosa, che non era frutto dunpassato,matestimonianza ') Documenti non lo provano, ma risulta piü che verosimile; cf. Vittorio Turri „Dante" (Firenze 1921). p. 55. decisa del presente e promessa dell' imminente a wenire, dovette sollevarsi in un volo spirituale veramente eccelso. Vi doveva allora essere in Lui come un sacro e potente orgoglio per gli uomini e per le opere del suo tempo, unitamente ad una salda flducia, non scossa ancora dai terribili awenimenti, che sopravvennero. Sappiamo che di Giotto era amico e che lo visitö a Padova nel 1306, quando il maestro vi dipingeva i celebri affreschi alla Madonna dell'Arena. Uno scrittore olandese ha perflno pensato di vedere, nella Divina Commedia, un rapporto diretto fra il concetto che Dante ebbe della gloria celeste, da lui riflessa negli ultimi canti del Paradiso, ed il mosaico di Torriti in Santa Maria Maggiore, appunto figurante il sublime misticismo delle Idealitè Sacre1). Trova, questo scrittore, che perfino relazione di dettaglio puó esservi tra il mosaico ed il divino poema. Dante, nel canto XXX del Paradiso, per esempio, s'incontra in un fiume dalle rive florite, mentre anche nel mosaico vi è un simile fiume, che sarebbe il Giordano. — In Dante il mistero della Divinitó è circondato da tre „giri" di tre colori diversi: Nella profonda e chiara sussistenza Dell' Alto Lume parvermi tre giri Di tre colori e d'una continenza; E 1'un daU'altro, come Iri da Iri, Parea riflesso, e il terzo parea foco Che quinci e quindi egualmenti si spiri. (Par. XXXIII, 115-120). E nel mosaico il posto della Divinitè, indicato da una croce, è effettivamente circondato da tre cerchi di varie tinte iridescenti. „Sarebbe veramente troppo audace pensare che il Poeta, per la sua descrizione dell'Empireo, regno di luce e di ardore, si lasciasse ispirare dal sublime mosaico, nel quale Torriti, con virtuosita bizantina, ha iüuminato il pensiero religioso del suo tempo nel senso piü profondamente mistico, attraverso la sua anima di francescano, uguale in questo a quella dello stesso ponteflee?"'— A Roma ed in Italia il primo anno giubilare, 1300, promet- l) Dr. H. M, R. Leopold. „Mozaïeken" nell' Elzevier's Maandschrift, 1912, p. 212. teva tanto. Invece il nuovo secoio recö le piü grandi disillusioni. A Roma, dove era tornato nel 1302 in missione presso la Curia, il Divino Poeta ebbe la notizia della sentenza di esilio che lo colpiva.... Allo splendore veramente imponente delle belle arti sotto il regno di papa Bonifacio VIII segue, nel 1309, 1'esilio della Santa Sede ad Avignone. Invece d'un ulteriore sviluppo d'arte che avesse seguito le vie tracciate dai grandi maestri, comincia in Roma 1'epoca che non conosce produzione artisti ca di sorta. II secoio XIV si trascina verso la sua ultima fine senza che ai numerosi monumenti sepolcrali cosi splendidi, eretti fra il 1276 ed il 1303, si aggiungesse altro. Solamente nel 1397-'98 „Magister Paulus" riprende 1'opera, tristemente] interrotta, con sincero sentimento di arte. La statua raffigurante Benedetto XII seduto, nelle Grotte di San Pietro, fatta nel 1341 da Paolo da Siena, non è piü all'altezza di un'opera quale il monumento sepolcrale per papa Bonifazio VIII. L'altare maggiore in San Giovanni in Laterano, ricca opera di Giovanni di Stefano, pure da Siena (1369), è inRomaunfenomeno completamente isolato. Fuori si fanno sculture significative, come quel monumento famoso del Can Grande a Verona (1328), il maestoso biografico mausoleo al vescovo Guido Tarlati, opera di Agostino ed Angelo da Siena (1330) nel duomo di Arezzo, o la bella tomba figurata pel doge Dandolo nel Seminar io a Venezia (1339). I rilievi di Andrea Pisano (f1349) al campanile di Firenze sono notissimi, come anche la sua porta di bronzo pel Battistero. II tabernacolo dell'Orcagna (*{* 1368) in Or San Michele è di squisita finezza e prova a sua volta che l'arte è «in cammino"; — ma il cammino non corrisponde allo slancio col quale il secoio principio! Nella pittura vediamo anche un ristagnarsi, mentre iseguaci toscani di Giotto altro non fanno che variare, con poca originalita, i temi da lui svolti. Taddeo Gaddi e Spinello Aretino sono personaggi di minore statura. A Siena Simone di Martini ed il suo cognato Lippo Memmi confermano nell'arte soprattutto 1' elemento tradizionale d'origine bizantina, ed i due fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti non fanno diversamente. II secoio XIV, dopo la morte di Dante, non ha piü da esaltare, ma da ammonire. La sua reale espressione ê il Trionfo della Morte, cosi come si vede figura to nel camposantodi Pisa. Quel secoio fu per 1'Italia un grave sfacelo, e se non condusse verso una completa rovina, si fu perchè le forze morali della nobile nazione riuscirono a consolidarsi poi, dopo una graduale liberazione dal torbido passato, per virtü del Rinascimento. — La Divina Commedia, come monumento supremo di genio individuale nella letteratura dei secoli, non poteva esser altro che isolata. —„In summo sit solitudo".—Invece, quale espressione d'una mentalita elevata e illuminata, la „mirabile visione" risulta di avere i suoi vivi riscontri nella magnificenza dell' arte di quel tempo, violentemente sconvolto, tragicamente sublime. G. J. HOOGEWERFF DE DANTEO AC LUCANO De summis antiquorum temporum poëtis, quos Vergilius ac Danteus in limbo conveniunt, hoe iudicium fert Vergilius, ut principem existimet Homerum, secundum Horatium, tertium Ovidium, ultimum Lucanum (Inf., IV, 88 sq.): Quegli è Omero poeta sovrano; L'altro è Orazio satiro, che viene, Ovidio è il terzo, e rultimo è Lucano. Sed re vera Lucanus altiora vestigia quam tres illi alii in mente Dantei reliquit. Quod breviter hic exponere in animo est'). Ut locos hucpertinentes ordine tractemus, primum adnotemus oportet, in ipso capite supra allato, in ter animas et coelesti salute et tartareis cruciatibus carentes Juliam quoque Danteum videre ac Marciam (v. 128), quas magnis scilicet laudibus extulerat Lucanus. Juliam etenim, Caesaris filiam, Pompei uxorem, egregiae indolis mulierem, sed immatura morte abreptam, Lucanus (Phars. I, 114—118) sic adloquitur: si tibi fata dedissent Maiores in luce moras, tu sola furentem Inde virum poteras atque hinc retinere parentem Armatasque manus excusso iungere ferro Ut generos soceris mediae iunxere Sabinae, ac fingit (III, 8—35) Pompeio ex Italia fugienti in somniis Juliae imaginem visam esse bellum ei exprobrantem (v. 28—32): Me non Lethaeae, coniux, oblivia ripae Immemorem fecere tui regesqüe silentum Permisere sequi: veniam te bella gerente In medias acies; nunquam tibi, Magne, per umbras Perque meos manes genero non esse licebit. l) Libenter fateor, me tantum non omnia hic sumpsisse ex commentariis Philalethis, Scartazzini aliorum necnon e Marxii de Lucano commentatione in: Pauly, Real-Encycl. d. cl Alt. ed. sec., I (1894) s.v. Annaeus, c. 2235. Scilicet non tam novis quibusdam indagandis operam dedi quam iis, quae alibi sparsa invenias, colligendis. Marcia autem (II, 326—371), primum Catonis iunioris coniux, turn ab eo Hortensio amico concessa alios fecunda penates Impletura, (v. 331 sq.) post Hortensii mor tem, cum modo bellum civile exarserat, ad priorem maritum redierat atque ab eo petierat, ut denuo se uxorem acciperet, omissa venere, cf. v. 342 sqq. da tantum nomen inesse. Conubü; liceat tumulo scripsisse: Catonis Marcia... Cf. et haec, v. 346 sqq. Non me laetorum comitem rebusque secundis Accipis; in curas venio partemque laborum; Da mihi castra sequi... In capite nono Vergilius affirmat, se iam ante ad Tartara descendisse, nempe evocatum ab Erichthone saga, ut animam quandam ex imo inferorum fundo extraheret (v. 22—27). Ver è ch'altra f ïata quaggiü fui, Congiurato da quella Eriton cruda, Che richiamava 1'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, Ch'ella mi fece entrar dentro a quel muro, Per trarne un spirto del cerchio di Giuda. De „effera" Erichthone Lucanus (VI, 507—569) multanarrat quae admirationem quaeque nauseam movent legentibus. Haec etenim (v. 543 sqq.): Laqueum nodosque nocentes Ore suo rupit, pendentia corpora carpsit, Abrasitque cruces. Sed et his atrociora audet (v. 554 sq.): Nee cessant a caede manus, si sanguine vivo Est opus... Ab Erichthone Sextus, Pompei Magni filius, petit, ut sibi quovis modo futurorum arcana pandat (v. 598 sq.): vel numina torque Vel tu paree deis et manibus exprime verum. Scilicet et diis Erichtho terrorem incutit (v. 527 sq.): Omne nefas superi prima iam voce precantis Concedunt carmenque timent audire secundum. Notatu dignum videtur, Goetheum, part. II Faustii, act. II, in illa „Classische Walpurgisnacht" Erichthonem quoque loquentem induxisse. Ad Danteum redeamus. Cap. XII inter tyrannos, homicidas, latrones ardenti immersos sanguini et Pyrrhum offendimus et Sextum (v. 135). Quod si rogas, cur Pyrrhum, generosissimum hostem neque crudelis ingenii regem tam inclementer damnaverit Danteus, respondendum videtur: quia cum Romanis helium gessit atque a Lucano (1,30) „ferox" vocatur. Item Sextum, nempe Pompeium, qui in Phars. VI, 570—830, Erichthonem illam consulit, hanc quoque ob causam vehementer Danteo displicuisse reor, quod apud Lucanum male audit (VI, 420 sqq.): Magno proles indigna parente Qui mox, Scyllaeis exsul grassatus in undis Polluit aequoreos Siculus pirata triumphos. Mox venit ad illum locum Danteus, ubi qui Deo diisve maledixerunt, qui fenus exercuerunt quique nefanda se venere commaculaverunt ardenti pulvere ac flammis nivium plumearum instar cadentibus uruntur (XIV, 13 sqq.): Lo spazzo era una rena arida e spessa Non d'altra foggia fatta che colei, Che fu da'piè di Caton gia soppressa. Cato etenim minor post pugnam Pharsalicam partem Pompeianarum copiarum per Lybiam in Africam provinciam duxerat, ut copiose enarrat Lucanus (IX, 294—949, cf. 734 sq.): duro Cato milite siccum Emetitur iter... Atque haec pars Pharsaliae Danteo vel maxime placuit. Cf. quae cp. XXIVde illo „Malgebolgae"loco refert, in quo fures nunc humana forma praediti nunc serpentes facti sese invicem vexant (v. 85 sqq.): Piü non si vanti Libia con sua rena, Chè, se chelidri, iaculi e faree Produce, e cencri con amfisibena, quae nomina serpentum omnia e Lucano desumpta sunt, ubi Chclydri (IX, 711) inveniuntur, Iaculi (v. 720), Pareas (v. 721), Cenchris (v. 712), Amphisbaena (v. 719). At non solum e Lucano desumpsit quaedam Danteus» sed etiam eum aemulatur, immo se superasse gloriatur. Cap. XXV vividissimis depingit coloribus horribilem draconem virum quendam sex pedibus nee non et cauda quam arctissime complexum atque fero morsu genas ei depascentem. Miscentur int er se et hominis figura et serpentis (v. 61 sq.): Poi s'appiccar, come di calda cera Fossero stati, e mischiar lor colore. Tandem Danteus, mutuam viri ac serpentis metamorphosin delineaturus exclamat (v. 94 sqq.): Taccia Lucano omai, la dove tocca Del misero Sabello e di Nassidio; Ed attenda a udir quel ch'or si scocca. Lucanus etenim narrat complures Catonis milites serpentum morsu variis modis periisse, inter quos Sabellum veneno consumptum effluxisse (v. 781 sq.): Calido non ocius austro Nix resoluta cadit nee solem cera sequetur, ac tandem plane evanuisse (762—788), Nasidii contra mirum in modum intumuisse artus (v. 795 sq.): late pollente veneno; Ipse latet penitus congesto corpore mersus, donec commilitones (v. 803 sq.): non ausi tradere busto Nondum stante modo, crescens fugere ca da ver. Qui discordias concitaverunt, gladio cuiusdam daemonis misère laniantur (cpt. XXVÏÏI). Ibi Curioni ab alio damnato os aperitur horrendumque vulnus, lingua resecta, Danteo monstratur, nee non, cur has det poenas, explicatur (v. 97—102): „Questi, scacciato, d dubitar sommerse In Cesare, afFermando che il fornito Sempre con danno rattender sofFerse". Oh, quanto mi pareva sbigottito Con la lingua tagliata nella strozza Curio, ch'a dir fu cosi ardito! Et hic Lucanum Danteus sequitur. Nempe Phars. I, 269 Caesarem „Audax venali comitatur Curio lingua", eumque ad bellum civile incitat ardentissimis verbis (280 sq.): Dum trepidant nullo firmatae robore partes Tolle mor as: semper nocuit differre par at is. Jam Malgebolgam relicturus Danteus adspicit gigantes turrium instar in fundo inferorum stantes, cpt. XXXI. E quibus Antaeum Vergilius sic adloquitur, (v. 115—121): „O tu che nella fortunata valle, Che fece Scipion di gloria reda, Quand' Annibal co'suoi diede le spalle — Recasti giè mille leon per preda, E che, se fossi stato all'alta guerra, De'tuoi fratelli, ancor par ch'e' si creda Che avrebber vinto i figü della Terra"; atque ab eo petit ut se Danteumque ad Cocytum congelatum demittat. Turn Antaeus (v. 131 sq.): Le man distese, e prese il duca mio, Ond' Ercole senti giè grande stretta. Ex Pharsalia et haec desumpta. sunt. In quarto enim libro rusticus quidam Curioni illi Caesarianorum duci castra in Africa collocanti narrat hanc ipsam regionem olim Antaeum giganten* infestasse, quo robustiorem Terra non pepererit filium (v.596sq): Coeloque pepercit. Quod non Phlegraeis Antaeum sustulit ar vis '). Antaeum autem aridis in campis (v. 602): epulas captos habuisse leones, multosque viatoresluctando oppressisse, donec ipseab Hercule strangularetur (v. 609—653). At res a Scipione gestas multo magis inclaruisse (v. 656 —660): Sed maiora dedit cognomina collibus istis Poenum qui Latiis re vocavit ab arcibus hostem. Scipio. Nam sedes Lybica tellure potito Haec ruit. En veteris cernis vestigia valli; Romana hos primum tenuit Victoria campos. Hic pauca sunt observanda. Jugum quoddam, eminens in ') In Phlegraeis Macedoniae campis deos cum gigantibus conflixisse traditum est. mare atque ab Utica paulo amplius passus mille distans, ut refert Caesar (Bell. Civ. II, 24), castra Corneliana vocabatur, quia Cornelius Scipio bello punico secundo ibi castra posuerat. Sequitur, v. 660 non mentionem fieri pugnae ad Zamam commissae, quae urbs longe ab Utica abest, sed illius potius victoriae quam Scipio de Syphace rege ac de HasdrubaleCarthaginiensi reportavit (cf. Livius, XXX, 3—6). Danteus, qui 1.1. parum recte Hannibalis fugam memorat, fortasse et hac re in errorem inductus est, quod Lucanus v. 657 Hannibalem significat ac 790 nominatim appellat. In limine purgatorii senex adspectu perquam venerabili Vergilium ac Danteum alloquitur, miratus scilicet eos ex aeterno carcere effugisse. Turn Vergilius viae causam indicat atque a sene petit ut se ad purgatorium admittat. Etenim Danteus (Purg. L v. 71-75): Liberta va cercando, ch'è si cara, Come sa chi per lei vita rifiuta. Tu'1 sai, chè non ti fu per lei amara In Utica la morte, ove lasciasti La vesta ch'al gran di sara si chiara. Nempe senex ille est Cato minor, qui, ut supra vidimus, partem Pompeianarum copiarum per Lybiam duxit atque post pugnam ad Thapsum commissam, libertate Romana desperata, ipse Uticae mortem sibi conscivit, quemque et aliis in scriptis Danteus summis extuüt laudibus (cf. De Monarchia II, 5): „Accedit et illudinenarrabilesacrificiumseverissimiveraelibertatis auctoris, Marei Catonis, qui, ut mundo libertatis amores accenderet, quanti libertas esset, ostendit.dumevitaliberdecedere maluit quam sine libertate manere in illa"; et magnificentissimam illam in „Convito" (IV, 28) exclamationem: „Equale uomo terreno degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo". Sed et Marciae mentionem facit Vergilius, (v. 78—83): Ma son del cerchio ove son gli occhi casti Di Marzia tua, che in vista ancor ti priega, O santo petto, che per tua la tegni: Per lo suo amore adunque a noi ti piega! Lasciane andar per li tuoi sette regni 1 Grazie riporterö di te a lei, Se d'esser mentovato laggiü degni." Ad quae Cato sic respondit (v. 85—90): „Marzia piacque tanto agli occhi miei, Mentre ch' io fui di la", diss' egli allora, „Che quante grazie volle da me, fei. Or che di la dal mal fiume dimora, Piü muover non mi puó, per quella legge Che fatta fu, quando me n'uscii fuora." Catoni autem minori Lucanus primas tribuit in Pharsalia partes deque eo nihil non generosum, magnificum, sublime narrat. Notissimum illud est (I, 128): Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni. Sed et haec afferre iuvat, quae (II, 285): Arcano sacras reddit Cato pectore voces, nempe v. 288 : Crimen erit superis et me fecisse nocentem atque hanc comparationem (297—303): Ceu morte parentem Natorum orbatum longum producere funus Ad tumulos iubet ipse dolor, iuvat ignibus atris Inseruisse manus, constructoque aggere busti Ipsum atras tenuisse faces, non ante revellar Exanimem quam te complectar, Roma, tuumque Nomen, hbertas, et inanem prosequar umbram. Denique in libro nono iam saepius a nobis laudato, ubi narravit poeta, quanta patientia Cato itineris per aridissimas arenas tulerit labores (e.g. v. 590 sq.): Somni parcissimus ipse est, liltimus haustor aquae, tandem exclamat (v. 601 —604): Ecce parens verus patriae, dignissimus aris Roma tuis per quem nunquam iurare pudebit Et quem, si steteris unquam cervice soluta Nunc olim factura deum es. In sext o Paradisi capite Justinianus imperator Danteo exponit quae res sub sacrosancto signo, i.e. aquila, gesta sint. Et belli Gallici facit mentionen, (v. 55—60): Poi, presso al tempo che tutto il ciel volle Redur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle. E quel che fe' da Varo inflno al Reno, Isara vide ed Era, e vide Senna, Ed ogni valle onde il Rodano è pieno. Et hic Lucanum ante oculos habuit Danteus enumerantem loca, unde Caesar copias ad bellum civile convocavit (Phars. I, 399 sqq.): Hi vada liquerunt Isarae qui gurgite ductus Per tam multa suo, famae maioris in amnem Lapsus, ad aequoreas nomen non pertulit undas. Sed et inde veniunt cohortes (v. 433 sq.): qua Rhodanus raptum velocibus undis In mare fert Ararim... Breviter et bellum civile exponit Danteus (v. 6172): Quel che fe' poi ch'egli usci di Ravenna E salto Rubicon, fu di tal volo, Che nol seguiteria lingua nè penna. Inver la Spagna rivolse lo stuolo; Poi ver Durazzo; e Farsalia percosse Si, ch'al Nil caldo si senti del duolo. Antandro e Simoenta, onde si mosse, Rivide, e la dov' Ettore si cuba, E mal per Tolommeo poi si si scosse: Da indi scese folgorando a Juba; Poscia si volse nel vostro occidente Ove sentia la Pompeiana tuba. Operae pretium est observare Lucanum tantum, quod sciam, narrare, Caesarem post pugnam Pharsalicam Troiam adiisse (IX, 961 sq.): Sigeasque petit famae mirator arenas, Et Simoentis aquas, illaque loca, ubi (v. 976 sq.): Phryx incola manes Hectoreos calcare.vetat, scilicet ut auctoribus gentis Juliae sacra faceret, (988 sq.): Erexit subitas congestu caespitis aras Votaque turicremos non irrita fudit in ignes. Denique in undecimo Paradisi capite Thomas Aquinas, exponit, quemadmodüm paupertas, licet Deo acceptissima, hominibus semper contemptui fuerit (cf. inter alia v. 67 sqq.): Nè valse udir che la trovö sicura Con Amiclate, al suon della sua voce, Colui ch'a tutto il mondo fe'paura. Haec ad illum ex quinto Pharsaliae libro pertinent locum, ubi Caesar, postquam in Graecia legionum Brundisii relictarum adventum diu frustra expectavit, tandem nocte silenti fert gressus ad casam Amyclae cuiusdam gubernatoris pauperrimi, v. 520, eumque belli securumcubantem,expergefacitatqueseinltaliam transmittere iubet. Poeta ibi facere non potest, quin exclamet (v. 527-531): O vitae tuta facultas Pauperis angustique lares! o munera nondum Intellecta deum! quibus hoe contingere templis Aut potuit muris, nullo trepidare tumultu Caesar ea pulsante manu? Alii quoque scriptores hoe referunt, omisso nomine gubernatoris; apud Caesarem ipsum altum de tota re silentium. Tam multa e Lucano Danteum sumpsisse non est quod miremur. Etenim haud una tantum in re inter se simillimi sunt. Uterque omnia compleeti studebat. Divina Commedia encyclopaedia quaedam est omnium, quae tune temporis sciri poterant, sed et in Pharsalia loei quarumvis disciplinarum tractantur. Uterque intimüm nobis animum quam vehementissime permovet. Lacrimas sane ehciunt, quae de sorte sua miserrima queritur Francesca da Rimini (Inf. V, 72 — 142), sed his vix inferiora sunt quae in Pharsalia (V, 722—759) de Pompeio Corneliae coniugi vale dicenti legimus. Nee non et cruore uterque gaudet et atrocitate. Confer modo cum illo Dantei loco de peccatoribus a daemone dilaceratis supra allato quae de pugna navali apud Massiliam narrat Lucanus (IIL 567—762). Quin et foedissima ac squalidissima (pars et ea rerum) neuter silentio praeterit: Inf. XXIX, 82 sqq. damnatiquidam scabiem sibi unguibus abradunt ut coqui squamas piscium cultello, apud Lucanum Erichtho saga vel siccae rodit excrementa manus (VI542 sq.). Sed et multum interest inter utrumque. Artem etenim supervacanea omittendi quam Danteus, si quis, callebat, plane ignorabat Lucanus. Ille intentissima cura ex omnibus optima quaeque delegit* hic, ut ita dicam, sacco semina effudit. Divina Commedia mundi instar est suis numeris absoluti, Pharsalia saepius rudis adhuc indigestaque moles. K. H. E. DE JONG LA VISIONE VIVENTE DI DANTE p' legge dell'umana natura che l'uomo quaggiü non si appaghi J—' di quanto ha potuto raggiungere. Chi si sofferma un istante a una pietra miliare sul cammino della vita, in quell'istante medesimo fissa coll'occhio la pietra miliare successiva e quella si propone quale sua prossima mèta. E cosi egli procédé di distanza in distanza, e ad ogni sosta è attratto piü oltre dal suo desiderio. Sempre piü oltre, giacchè 1'ideale suo non è in quelle pietre miliari che ad una ad una egli sorpassa, ma sibbene nell'incognita mèta della vita, ch'egli forse mai potra raggiungere, ma che tutti con irresistibile forza ci attira. E cosi, per me, il godimento di ogni opera poëtica non è che una preparazione allo scopo mio ultimo ch'è quello d'imparare a conoscere 1'opera di Dante Alighieri. Molti son quelli che mai potranno possedere una tale conoscenza e lottano per tutto la lor vita quant'è lunga senza riuscire a ció cuiinconsapevolmente anelano. Feücissimi coloro che trovar possono la via che mena al divino poeta, per udir dalla stessa sua bocca i piü celestiali accenti che siano stati mai cantati nel verso e nel ritmo. Quale gaudio non è per l'uomo poter capire e sentire quella lingua e quei pensieri sovrannaturali! Quale conforto potere in certa guisa sentirsi parenti con lo spirito del poeta! Giacchè, malgrado il sommo stupore che ci colpisce dinanzi a quel genio, nutriamo nell'animo nostro la lusinghiera certezza che pure in noi vive un po' di quello spirito, che di quello spirito anche noi siam parte, pur modestissima. Perfino le piü eccelse cose presentano una certa connessione colle comuni cose terrene. E per colui che una volta senü in sè una tale connessione, non è certo profanazione la sua sete di scrutare piü a fondo; come non costituisce una profanazione della natura spingersi a studiare nella piü intima essenza di minime pianticelle le meraviglie della creazione. Chi inverorisale fino alle loro origini le vie per le quali il genio fiori.edivigiunto 7 PM ne discopre le sorgenti, da cui scaturisce libero di corso e di propria volonta il grande fiume, colui non è, no, assalito dalla manïa di rimpicciolire 1'indipendenza del genio, poichè sempre potra dire: anche egli dunque attinge la linfa, la vita sua altro ve, proprio come noi facciamo! Lungi dal muovergli un tale rimprovero, noi intendiamo e vogliamo imparare a capire la libera forza dello spirito, noi vogliamo vedere coi nostri propri occhi come le piü grandiose cose possano, per forza propria, svilupparsi e crescere, dal minimo germe, ch'è di noi tutti, e dal quale noi tutti traemmo 1' origine nostra, cosi che possiamo dire: Anche noi siamo come lui. Nulla v'ha al mondo capace di elevarci cosi come 1'intima conoscenza del genio. Giacchè 1'eccellenza dello spirito piü radiosamente colpira il nostro intelletto quanto piü chiaro ci apparira come la materia piü sempüce si plasmi nelle mani del maestro nelle piü potenti immagini, la cui anima e il cui corpo senza tregua ergonsi dinanzi a noi quali messaggeri dall' eternita. E quei messaggeri ci annunzieranno, pur nei momenti nei quali noi non vorremmo udirli, che v'ha pure lassü un posto per noi. La Divina Commedia dell'Alighieri ha dato lo spunto piü a studiare la visione del poeta, che il poeta visionario stesso. E' questa appunto la ragione percui in queste poche pagine del libro che il Grande commemora, la nostra attenzione è attratta e concentrata su Dante medesimo, E' universalmente noto che, giè prima dell'esistenza della piü grandiosa opera poëtica di tutti i tempi, molti dettarono le loro visioni dei regni ultraterreni. E dotti di grande autorité, come ad esempio gl'inglesi Dods') e Boswell2), paragonarono quelle antiche visioni a quella del sommo poeta italiano. La loro opera è, perö, sotto un tal punto di vista, incompleta, poichè attribuirono una importanza affatto secondaria alla parte svolta dall'autore, dal veggente. Che un tale concetto sia inesatto ci proveremo di spiegare nelle pagine che seguono. Una delle piü antiche visioni cristiane occidentali si è quella dei monaci Teofilo, Sergio ed Igino3). i quali si posero iri via ') Forerunners of Dante, Edinburgh, 1903. ~) An Irish precursor of Dante, London, 1908. *) Acta sanctorum, Octobris, torn. X p. 563. per trovarc la comunicazione fra la terra e il cielo. Giunsero a un luogo che mandava un puzzo orrendo: era quello 1'ingresso dell'Inferno. Poco dopo incontrarono S. Macario che disseloro come la porta del Paradiso fosse un po' piü innanzi. Tale visione appartiene al quarto secoio. Al quinto secoio appartiene quella di Sant'Antonio, a proposito della quale Palladio') narra che il Signore, da lui richiestone, gli indicö la dimora delle anime dei peccatori e dei buoni. Vide egli quindi sotto di lui le anime dei buoni volar via, e condotte da angeli al cielo, mentre le anime dei peccatori erano afferrate da un gigante e scaraventate in un lago nero. Nel sesto secoio poi troviamo una visione di S. Carpo2), il quale passó vicino al pozzo, entrata deU'Inferno, da cui si ergevano contorcendosi immani serpenti. Vide il santo come gli orribili mostri infernali martoriavano i pagani, ma vide pure Cristo stesso scendere dal suo trono e salvarli. II lato, diremo cosi, importante di queste antiche visioni non è nella rappresentazione dell'oltretomba che ci danno, ma bensi nel modo col quale si giunge all'Inferno e al Paradiso. Le entrate ai due suddetti regni sono in una qualche parte della terra, accessibili anche a un mor tale, di carne e d'ossa. Realmente qui si potrebbe a mala pena parlare di regni d'oltretomba. Per i piü antichi visionari il regno delle anime è piuttosto una speciale circoscrizione territoriale di questo nostro mondo, che noi, è vero, non possiamo contemplare ogni giorno.ma che ad ogni modo vi possiamo arrivare anche senza 1'intervento di mezzi metafisici. Noi potremmo, per cosi dire, paragonare il concetto informatore di quelle antiche visioni al concetto che noi abbiamo dell'Australia e del Polo nord: una terra lontanissima, cioè, ma ció nonpertanto una parte del nostro globo. L ingenua immaginativa si appaga di sè senza concepirenessun altro mondo aU'infuori di quello che cade sotto la diretta osservazione. Ed è appunto da quest'ultimo concetto che le numerose recenti visioni grandemente si allontanano. Astraendo dalla visione di un certo Ugo, narrata da Ricordano Malispini, e da ') Historia Lausica, cap. 28. s) Diogenes Areopagita, ed. Corderiua, toni. I. p. 608 sq. qualche altra, un tale primitivo carattere si perde definitivamente nel sesto secoio. II Concetto naturale, e, diremo, dell'antico testamento, secondo il quale rinvisibile paria quaggiü sulla terra, è soppiantato da una forma razionahstica che nonfavorisce di certo 1'impressione generale. Ha inizio con Gregorio di Tours, il quale nella sua „Historia Francorum" ')racconta la visione di un certo Salvio. Questi avrebbe vedutoil paese degli angeliedeibeatinon perö perchè fosse passato per caso vicino all' ingresso. La sua anima avea lasciato il corpo, era egli dunque morto.ma alcuni giorni dopo la sua morte torna in vita per raccontare ai monaci suoi compagni ció che egli aveva visto. Si sente subito il sapore razionalistico di questo concetto. L'uomo piü evoluto, colto non puó piü pensare al regno degli spiriti su questo nostro mondo, ma 1'immaginativa gli viene in soccorso e gÜ crea un „Altro mondo" inaccessMe al corpo materiale. E qui s'introduce, quale elemento indispensabile nella letteratura delle visioni, la morte apparente.L'animaèseparata prowisoriamente dal corpo e cosi puö accedere al regno degli spiriti. E quando piü tardi rientra nel corpo suo, puö riferire su quanto ha veduto. Cosi è compiuta la netta separazione del mondo materiale dal mondo degli spiriti. Ful'intelletto pensante che ha reclamato una tale separazione, mentre 1'intuizione sensitiva dell'uomo primitivo mai ne sentï il bisogno. Torna inutile enumerare le molte visioni, nelle quali manifestasi questo nuovo concetto razionalistico del visionario ch'è apparentemente morto. Altrove2)mi studiai didimostrare come 1'Irlanda svolgauna ragguardevole parte nellosviluppodi queste visioni. Le grandi visioni irlandesi, celebri piü tardi anche nella letteratura mondiale, presentano tutte questa fisionomiahsono appunto le visioni di Adamnano.Tondalo e il Purgatorio di San Patrizio. Nell'ampia serie di visioni che incontransi in Irlanda dopo Gregorio Magno, e che piü tardi vediamo pure inlnghilterra e nel continente, il fenomeno presentasi eguale. Sono le visioni, narrare nei „Dialoghi di Gregorio", le visioni di San Furseo e Dryhthelmo descrite nell' „Historia Ecclesiastica di Beda Venerabilis e parecchie altre comprese nella denomina- ') Ed. Arndt & Kusch. p. 289 segg. 2) Neophilologus IV, p. 152 segg. zione di visioni Carolingie. Degno di nota si è come nel passaggio delle visioni dal cielo e daH'inferno ad un altro mondo, fuori dell'umana percezione, si segua un concetto che vediamo dominare anche in Platone e in Plutarco. L'armeno Er, infatti, del quale paria Platone nella sua Repubblica, volume II, e il quale potè vedere il regno infernale, era caduto in battaglia e piü tardi tornö alla vita. Eil visionario Soleo, citato in Plutarco, ebbe la sua visione dell'inferno in uno stato di morte apparente. Eppure, nemmeno questo concetto razionalistico deUa visione puö appagare alla lunga gli spiriti. II misticismo, ch e sempre esistito fin dai tempi delle prime fraternite daustrali nel mondo cristiano e a cui 1'opera di Bernardo da Chiaravalle infuse nuova e piü ricca vita, trovavasi in una situazione adatta piü a spiegare la virtü visiva del visionario che la morte apparente, vale a dire 1'estasi. Non si richiede che l'uomo muoia, e poi torni in vita, giacchè 1'anima puö lasciare il corpo anche flnchè questo ancor vive. II concetto popolare mistico e la letteratura delle visioni s accordano perfettamente, e 1'estasi va sempre piü a sostituire la morte apparente, pur vedendosi quest'ultima mantenuta in qualcuna delle piü celebri e note visioni. Gia alcune visioni carolingie hanno assunto un tale aspetto mistico, come quella visione di una povera donna,1) la quale nell'819 cadde in uno stato di estasi. Ma a tale proposü© sono principalmente rimarchevoli le visioni di Anscario2), 1'apostolo dei Normanni, 1'anima del quale soleva abbandonare ü corpo, assumere una forma piü bella e visitare quindi i tre regni ultraterreni. Troppo lungi ci porterebbe trattar qui delle numerose visioni estatiche che sorsero nel fiorente periodo del misticismo. II loro numero è grandissimo. Faremo soltanto notare che anche questo concetto mistico della visione ricollegasia una piü antica tradizione, a quella guisa che il concetto razionalistico ricollegasi al concetto classico. E infatti, tanto i piü tardi documenti ebraici, quanto gli antichi documenti cristiani doriente, conoscono 1'estasi delle visioni. II veggente ebreo Enoch, come leggesi nel „Libro di Enoch", venne afferrato da un fortissimo vento e portato in cielo, ove gli apparve 1'arcangelo Michele j) Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter, p. 260. * Pertz, Monumenta Germaniae Historica, II, p. 638 segg. che gli fu guida per i cieli e per 1'inferno. .Questo ratto d'uomo alla terra devesi concepire quale uno stato d'éstasi, cosi come il trasporto di Esdras e Jesaia operato da unangelo in ambedue le visioni attribuite, nei primissimi secoli del cristianesimo, a quelle due figure dell'antico testamento. Anche le note rivelazioni degli apostoli Pietro e Paolo, le quali appartengono ai Ubri cristiani apocrifi e alle tradizioni del cristianesimo oriëntale, conoscono un tale concetto delle visioni. Paolo, nella seconda lettera ai Corinti (XII, 2—4), non dice nemmeno seeghfuinnalzato fino al terzo cielo col corpo o senza: ció è, quindi, estasi e non morte apparente. Lo sviluppo della letteratura cristiana oriëntale delle yisioru appare ora a noi chiarissimo. Scaturiva dalla primitiva visione, la quale collocava tf „Altro mondo" (per quanto si possa qui adoperare questa espressione) nel mezzo di questo nostro mondo comune e lo rendeva accessibile all'uomo materiale senza intervento di speciali artifici. In un periodo posteriore il regno delle anime viene concepito come separato dal nostro mondo, e solo 1'anima vi puó accedere, dopo che essa si è sciolta dal corpo, morto di morte deflnitiva o temporanea. Aun tale stadio razionalistico sussegue di nuovo uno stadio mistico, il quale pone esso pure 1' „Altro mondo" fuori del nostro ordinario orizzonte, ma vi fa perö accedere 1' anima quando, nello stato d'éstasi, abbia abbandonato il corpo. I due ultimi stadi da noi contemplati poggiano rispettivamente sui concetti classici esui concetti cristiani orientali. Un tale svolgimento delle visioni è naturale, e non ci sorprende affatto di riscontrare una concorde crescente fioritura nelle antiche visioni irlandesi suil' „Altro mondo". L'Irlanda ebbe gran parte e molto contribui nella soprawivenza delle visioni nel continente. Non è certo puro caso che le prime visioni dopo Gregorio Magno ci sono narrare dal Beda in Northumberland, il quale ebbe la sua coltura daU'Irlanda.Lacausa per la quale il cristianesimo irlandese nel VII secoio, e anche piü tardi, tanta importanza annetteva alla letteratura cristiana delle visioni, va ricercata pr incipalmente nel fatto che 1'elemento delle visioni medesime occupa un posto predominante anche nell'antica letteratura pagana irlandese. Se noi ben riflettiamo sulle antiche leggende irlandesi che trattano i regni ultramondani, potremo awertire uno sviluppo, il quale procédé di pari ed identico passo col sovra enunciato crescente sviluppo delle visioni cristiane d'occidente. Nelle piü antiche leggende, appartenenti al cielo cosiddetto dell'Ulster, che è il cielo primitivo delle leggende irlandesi, il mondo delle fate non trovasi nè sopra un'isola, nè in un paese fantastfco, ma proprio nel mondo nostro, nel mondo degli uomini. L'uomo, chiamato ad accedervi, non è costretto per dó fare ad abbandonare la terra, nè tampocoil mortalesuo corpo. Quando 1'eroe Cuchulinn, nella leggenda „II letto di dolore di Cuchulinn", entra nel paese delle fate, per innamorarsi d'una di esse, e secold vivere fino a quando lo richiami la sua sposa umana, il viaggio suo non lo conduce fuori della terra, anzi neppure in regioni tanto lontane. E qui regna ancora lo stesso primitivo spirito che giè riscontrammo nelle visioni cristiane di Sant'Antonio e di San Carpo. II mondo degli spiriti è sempre, per cosi dire, vidno, pur essendo accessibile soltanto agli eletti. Al dclo dell'Ulster nella letteratura irlandese segue il cido di Finn. Questo assurse, in epoca posteriore, al suo pieno sviluppo e rappresenta in pari tempo uno stadio piü progredito della coltura. Ció appare dal mutato carattere che andarono assumendo le idee e i concetti umani. A noi ora interessa solo sapere che il mondo delle fate piü non è quel paese in visibile, che si puó trovare ovunque e in nessun luogo, e al quale gli eletti hanno accesso senza 1'ausilio di mezzi sovrannaturali. Quando re Conn fu portato nel paese delle meraviglie, gli apparve un cavaliere, che lo condusse avvolto in una nubein una bellessima valle ove tutto era un incanto. La stessa valle fu visitata da Cormac, nipote del re Conn anzidetto. Anch'eglifu attirato in una spede di nube da un essere sovrannaturale che teneva alzato dinanzi a lui un ramoscello d'argento con mele d'oro. Per ottener il possesso di quel ramoscello Cormac avrebbe dovuto rinunciare successivamente al figliuolo, alla figliuola e alla sposa. Ma quando sentï di non poter vivere lungi dalla sposa, egli scelse di seguir questa, e giunse in tal modo alla Terra Promessa. Da quanto precede si puó vedere quale svolgimento si sia andato manifcstando nelle idee e nel gusto letterario.Ilraffinamento di un'epoca piü recente piü non puö concordare con i concetti delle primitive leggende. Ci si chiedeva ove mai sitrovasse la terra delle fate e come la si sarebbe potuta raggiungere; ciö che s'era pur chiestoürazionalismorelativamenteaUe visioni cristiane d'occidente. Anche larispostaallasovraenunciata domanda presenta una certa affinita con la risposta data dalla letteratura cristiana. II regno degli spiriti trovasi in un „Altro mondo", nel „Mondo dei viventi' ', come è detto nell'antica lingua irlandese, e vi si puó giungere in una specie dinube. Chi vi è trasportato lascia la terra, il mondo degli uomini, in maniera sovrannaturale. In un terzo stadio la letteratura irlandese ha fatto un passo ancora piü innanzi, e anche qui noi vediamocorrispondereaun tal passo un passo uguale, anzi un passaggio, delle visioni cristiane dal razionaüsmo almisticismo. Einvero, come col misticismo e con 1'estasi si è introdotto nella letteratura cristiana un elemento popolare (nemmeno nel periodo della sua massima fioritura il misticismo divenne aristocratico) cosi le leggende irlandesi si evolvono e si rivolgono nella direzione popolare del misticismo delle favole, allorquando 1'„Altro mondo" viene localizzato su isole meravigliose, lontane nell'oceano. Nota è la leggenda „L'avventura di Connla". Una fata dal „paese dei viventi" getta a Connla un porno che mai scema per quanto se ne mangi. Quel porno fa sorgere in Connla unintenso,un inestinguibile desiderio di quella fata. Una volta essa gli riapparve in un battello di cristallo. Connla allora lascia tutti i suoi cari e segue la fata verso le isole lontane. Quelle isole, „Le isole della fortuna", giè da tempo esistevano, sia pur forse con altri nomi, nella fede popolare irlandese prima che se ne impadronisse la letteratura per identificarle col paese delle fate. Tutti i popoUmarinarihansognatodi tali isole: cosi le popolazioni irlandesi della costa occidentale credevandi scorgere, nei giorni di limpida serenitè atmosferica, lungiall'orizzontele misteriose regioni. Forse i piü audaci avranno sfidato i mari per raggiungere quelle lontane contrade, le quali sempre arretravano schernendo ogni audacia nautica. Qual meraviglia, or dunque, se quelle misteriose isole della fede popolare diven- nero un tutt'uno col paese mera viglioso in cui l'uomo veni va trasportato awQito in una nube? Non v'ha ragione alcuna di voler riscontrare in Dante ilpunto terminale dello sviluppo evolutivo della letteratura sulle visioni. E invero, perfino le migliori tra le piü antiche visioni cristiane, quella ad esempiodiTondaloedilPurgatoriodiSan Pa trizio, nulla hanno di comune con la Divina Commedia. Iltitolo „Precursori di Dante", che taluni scrittori dieder o ai piü antichi au tori di visioni, costituisce, a parer nostro, per questi ultimi un troppo grande onore. Ciö non pertanto, e come si è dimostrato al principio di questo breve studio, un paragone tra 1'opera del divino poeta e gli antichi autori di visioni ha pur esso il suo valore, poichè, appunto in tal modo, piü potente emergera la grandezza del piü nobile poema dell'umanitè. Noi vediamo nelle prime terzine dell 'Inferno net tam ent e delineata e magistralmente stabilita 1'indole e la natura dell'opera in ter a. Al ritmo solenne dei primi versi sentiamo che 1'opera piü non ci lascera fino all'ultima sua terzina. L'impeto ci avvince e ci travolge. E noi a quell'impeto travolgente cediamo in un completo abbandono, e su quanto dinanzi ci passa fissiamo estatici e stupiti lo sguardo, pur nei momenti nei quali vorremmo il nostro sguardo torcere altrove: ci sentiamo awinti, ci sentiamo vinti, dobbiamo mirare. Quante volte noi riconoscemmo netta dinanzi a noi la slanciata figura del poeta dalla dura bocca e dagli occhi infiammati, smarrito soütario nella „selva oscura, chè la diritta via era smarrita!" E' questo un momento di disperato abbandono, uguagliato solo da qualche altra tragica scena della prima cantica. II nostro pensiero correva si sovente a lui, per poi rivolgere lo sguardo in noi stessi ! Frattanto, questi primi versi e gli altri che immediatamente seguono, racchiudono un altro valore. Essi ci permettono, cioè, di determinare la posizione di Dante tra i poeti delle visioni, e dedurne se e quanto il suo capolavoro possa realmente considerarsi qual punto finale nella evoluzione delle visioni cristiane, nelle quali piü sopra avemmo a distinguere tre stadi, tutti e tre da paragonarsi coi tre susseguentisi concetti della visione nelle leggende pagane irlandesi. II Poeta è smarrito e finisce in, una „selva oscura". Ivi egli „si ritrova". Ció non puó significare ch'eglisiconsidera „apparentemente morto", giacchè in tal caso il „si ritrova" dovrebbe significare lo svegliarsi dallo stato di morte, mentre ci troviamo ancora proprio all'inizio della visione. Per la stessa ragione noi non possiamo concepire il poeta nello stato di estasi. Inoltre, il concetto dell'estasi, o della morte apparente, mal si potrebbe conciliare con lo smarrimento „della diritta via". Se con ciö si allude alla cupidigia e all'attaccamento al peccato, allora il „si ritrova" non puó che significare la coscienza del propio stato di colpa. Allorquando Dante entrö nella selva, era, egli dice: pien di sonno in su quel punto Che la verace via abbandonai. E' questo il sonno di una coscienza paga, di una coscienza che per neghittosita approva le piü malvagie cupidigie, non è desso, no, ü sonno del visionario, la cui anima sciogliesi dal corpo per spiccare libera il volo verso altre regioni. II veggente Alighieri non trovasi nè in uno stato di „morte apparente", nè di „estasi mistica". Procédé, incede con fermo passo suüa nostra ferma terra. Segue la rettavia,indifarnetica, ed egli è gia smarrito quando s'accorge di quella sua debolezza. Potrebbe la cosa esser piü chiara? Chi tutto ciöbenconsideri non puó dubitare menomamente circa il posto che Dante occupa tra i veggenti cristiani. Egli appartiene a coloro che noi ponemmo nel primo stadio. II suo „Altro mondo" non è affatto un altro mondo, poichè giace nella stessa terra e sulla stessa terra abitata dagli uomini viventi, ed egli, Dante, quel suo mondo percorre in carne ed ossa. Certo che anche il fiorentino, il quale vuole costruire il sistema cosmico di questo suo mondo, deve assegnare un luogo determinato, deve insomma localizzare i suoi tre regni oltremondani. Ma egli segue in ciö 1'identico modo che seguirono quasi tutti i piü antichi autori di visioni dei primitivi tempi cristiani. Infatti, per la detta localizzazione egli si vale del creato, che altro non è se non il mondo a lui noto, che poi è il mondo che il suo pensiero gli figurava. II creato di Dante è per lui cosi reale, come reali erano per l'uomo primitivo le regioni in cui essi vivevano. II creato, nel suo complesso, è per Dante il comune mondo reale. Egli, pci suoi regni delle anime, non crea, come fecero invece i visionari razionalistici e mistici, un mondo separato presso e al di fuori del mondo comune. Ecco la ragione per cui non è mestieri battere vie metafisiche per accedere aH'oltretomba di Dante: giacchè il suo mondo (le regioni dei corpi e delle anime) è concepito con criteri flsici. Semplicemente farneticando e smarrendosi trovasi la via che mena all'inferno, a quella stessa guisa che San Carpo capitó per caso all'orlo del pozzo infernale. L'inferno, il purgatorio e il paradiso di Dante sono ben differenti di quelli dei visionari, di Gregorio, di Beda e di quello di Anscario. Non sono nè soprannaturali nè extranaturali, ma una parte del sistema mondiale cosmico concepito dallo spirito scientifico e filosofico di Dante. Se, giunti al punto in cui siamo, volgiamolo sguardo indietro, di leggeri ci convinceremo che al poeta eraimpossibilediiniziare altrimenti 1'opera sua. Ogni prefazione, in cui egli si fosse presentato come staccato temporaneamente dalla vita o sciolto dal corpo, avrebbe tratto seco come necessaria conseguenza di diminuire grandemente 1'impressione dell'insieme. E appunto perchè noi, cresciuti e vissuti nello studio della Divina Commedia, ci siamo assuefatti all'assenza di una tale prefazione, di tale assenza noi nemmen piü ciaccorgiamo. Ciö non toglie perö che quella di Dante non sia di altissima importanza. Giacchè dessa separa 1'Alighieri dai suoi contemporanei e da coloro che vennero immediatamente prima di lui; per essaDante la rompe con la tradizione qual era divenuta ai suoi giorni; essa risospinge il poeta allo spirito delle primitive visioni del piü antico cristianesimo occidentale. In Dante il concetto razionalistico e mistico della visione giunse ad un termine, e risorse il concetto naturale. E perchè? Perchè in Dante è divenuto nuovamente vita e realia ciö che presso altri assurse a speculazione e a letteratura; perchè in lui la visione si è realmente manifestata ed egli visse intimamente dal dubbio piü profondo alla somma gioia. Che cosa sarebbero mai apparsi a noi l'inferno e il Paradiso di Dante, se fossero contemplati sol quale una visione estatica, piü che come una bella immagine rappresentata con arte somma? Ma ora che ci si presentano quali sono, col monte del Purgatorio fra i due, qui nel nostro mondo, essi sono per noi piü che bellezza, piü che arte: sono realia e vita. II vero genio non puö appagarsi della sola arte, giacchè si strugge nella brama della vita stessa. Fredde apparirebbero le parole dell'anima estatica di fronte al caldo contatto dell'uomo come siam noi, deü'uomo che vediamo procedere e giungere da tutti i dolori, attraverso tutte le purificazioni, a tutte le gioie. Nessuna meraviglia, or dunque, che Dante lasci dietro sè la visione del razionalismo e la visione del misticismo, per tornare alla natura stessa, alla diretta visione dell'uomo primitivo. Giacchè, in virtü della sovrabbondanza di forza creatrice, diretto si è fatto nel gran genio il contatto colla natura e colla vita. In tal guisa in lui furon vinti secoli di lento irrigidimento. In un mondo come quello della Divina Commedia la vita scorre libera cosi come nel primo giorno della creazione. A molti riuscira arduo vedere nella Divina Commedia qualcosa che non sia uno squarcio di speculazione e di teologia. Ma cotesti dovranno ben ricredersi e convenire che speculazione e teologia figurano bensi nel Poema Sacro, ma vifigurano soltanto come elementi organici della vasta visione poëtica dell'uomo, il quale, nella grandiosa ispirazionediundivinoistante, senti intimamente in sè il significato e il nesso di tutto 1'ordinamento mondiale, fisico ed etico. Cosi in Dante tutte le leggi e tutta l'arte son vinte, e nella loro altissima perfezione volte a servire una piü alta mèta. Or bene, non è ciö forse, alpostutto, quell'intuizione medesima che metteva di fronte alla natura l'uomo primitivo, al quale vedemmo avvicinarsi nella sua visione il poeta maestro di tutti i secoli? A. G. VAN HAMEL LA FILOSOFIA AI TEMPI DI DANTE Tn nessun periodo del medio evo la filosofia siprestava tanto ad ^essere trasportata ad un' armonia cosi sublime dall'interpretazione ideale di sintesi poëtica, come negli anni durante i quali possiamo considerare la filosofia di Dante arrivata al pieno suo sviluppo, cioè sulla fine del secoio XIII e sul principio del XIV. Dopo la grande lotta delle dottrine, che aveva portato la scolastica al culmine del suo sviluppo, le posizioni dei due partiti avversari si erano nettamente delineate, mentre la chiara definizione dei loro sistemi faceva spiccare piü che mai le loro divergenze. Ma i contrasti esistevano soltanto nella diversita dei principi, poichè le sottigliezze e le pedanterie non avevano ancora abbassato la scolastica al livello di decadenza che durante un secoio doveva impedire qualunque rinascenza scientifica. A questo punto culminante di costruzione positiva è manifesto che la filosofia del medio evo è stata un'opera di collettivitè e di tradizione, malgrado tutte le divergenze di opinioni. Col suo ideale dogmatico di salute cristiana, il medio evo è rimasto estraneo ad ogni individualismo, ed è questo ideale di perfezione morale nell'al di la che da al pensiero quella tinta di misticismochealla fine faimpaUidire la sapienza di questomondo, .... il pan degli angeli, del quale Vivesi qui, ma non sen vien satollo(Par. II, 11), davanti alla piena soddisfazione che la mente assetata puö ottenere poi nel Paradiso. Perció non si dovrebbe mai separare la scolastica dal misticismo, essendo la loro divergenza piuttosto graduale, secondo l'influenza piü o meno diretta che aveva quel desiderio della vita eterna suH'ordinamento deU'attivita intellettuale. Giustamente il Dott. Is. Van Dijk („La Vita Nova di Dante", Groninga 1920, pag. 113) ha chiamato il pensiero scolastico un'opera di piëta persónale, nella quale 1'intelletto e 1'affetto producono insieme un frutto morale di speciale carattere. La vita dei pensatori medioevali era una applicazione continua e amorosamente coscienziosa della loro dottrina. Non chiama forse Dante la filosofia „uno amoroso uso di sapienza" (Conv. II, 16)? E come dice Ozanam („Dante et la philosophie catholique au XHIe siècle". Louvain 1847, pag. 30): „essi realizzarono in tutta la sua pienezza quella saggezza pratica tanto sognatadagli antichi: 1'astinenza dei discepoU di Pitagora, la costanza degli Stoici, 1'umilta, la carita che nessuno di quelli aveva conosciuta". Perció la coltura medioevale non troverebbe il suo equilibrio stabile che nella distinzione pura, teoretica e pratica, tra fede e scienza, tra la teologia e la filosofia, con la quale distinzione si risolverebbe in pari tempo il problema teleologico per il pensiero e 1'azione. L'armonia della cognizione naturale e di quella rivelata da Dio è il problema centrale del pensiero medioevale. L'Autorita della rivelazione è indiscutibile per tutti. La formula per tanto tempo accettata: „credo utintelügam",promossa dallecorrenti neoplatonico-mistiche che sorsero dalla scolastica di Anselmo, sembrava mirare ad introdurre una spiegazione ragione vole della dottrina cristiana, ma in realta non ammetteva alcuna intelligenza per mezzo della ragione senza precedente atto di fede. L'accento cadeva sempre suU'oggettivita: non si trattava della „scienza per la scienza", ma si voleva affermare la verita del dogma della chiesa per mezzo della ragione riconoscendo il valore di quest'ultima com'è piü sopra, condizionatamente, determinata. Tuttavia è esagerato dire come Vossler (Die Göttliche Komödie. Entwicklungsgeschichte und Erklarung. Bd I, Heidelberg 1907, pag. 152): „Da Anselmo in poi tutta la scolastica ortodossa soffre di questa confusione di due idee („fides qua creditur" e „fides quae creditur")". Essa fu la conseguenza inevitabile della teoria neoplatonica, la quale riteneva necessaria per ogni atto di conoscenza una ispirazione divina, impedendo cosi d'introdurre una demarcazione pratica fra la cognizione rivelata e quella naturale. Con la nuova teoria astratta del tomismo, basato in Aristotele, la demarcazione di venne invece ben distinta: ció che si puó ottenere per via d'astrazione dalle immagini prodotte dai sensi, fa parte della cognizione naturale — e ha un valore intrinseco quale perfezionamentometafisicodell'uomo — mentre tutto il resto appartiene alla rivelazione divina. Cosi la ragione riacquistö i suoi diritti per ció che riguarda va principi e metodi, mentre per le conclusioni rimaneva sottoposta al controllo della teologia. Cosi ai tempi di Dante i due principali sistemifilosoficisitrovano uno di fronte all'altro quanto riguarda il piü importante problema della scolastica. In questi anni il tomismo non predominava ancora, e perció riesce piü facile-farsi una idea dei partiti, Fin'ora, dal punto di vista storico, la mentalita neoplatonica rimane d'importanza principale. Basta pensare alla tendenza di simbolismo che dominava la vita intellettuale di quei tempi, letteratura ed arte inclusive. Questo simbolismo non è il frutto di concetti estetici formatisi per puro caso. Esso trova la sua origine nel raddoppiamento platonico delle forme di esistenza, il quale fa considerare ogni cosa nella materia quale immagine imperfetta della sua essenza ideale. (Confr.: Vossler, o. c, pag. 144—145). La frase: „Alles vergangüche ist nur ein Gleichniss", diventa formula di principio. Tuttavia la dottrina platonica subi, da Plotino e da S. Agostino in poi, una importantissima trasformazione. Per Platone le idee esistevano da per sè, quali sostanze in un mondo spirituale. Plotino le mette nel „Nous", la prima emanazione della divinita super-individuale, mentre per S. Agostino esse sono i pensieri di Dio, esempi ideali delle cose esistenti nella materia. Riscontrasi ivi subito il rapporto con la vita intellettuale religiosa del medio evo, rapporto effettuato gia del resto dal pseudo-Dionisio 1'Areopagita, le cui opere sono state chiamate la seconda Bibbia del medio evo. In ogni cosa creata il pensatore ortodosso del medio evo anzituttononpuó vedere che la sembianza di Dio. „L'Anima", come dice Ugo diS. Vittore (De sacramentis christianae fidei, prologus: Migne, Pat. Lat.T.176) , grazie alla pro v videnza divina trova nel mondo materiale il suo cibo spirituale per mezzo del simbolo". Perchè il primo compito della materia è dimettere la nostra cognizione in grado di elevarsi fino alle cose piü alte in visibili.,, Mens hebes ad verum per materialia surgit" erano le parole che SugerdaSt. Denis fece scolpirc sulle porte di bronzo della sua chiesa abbaziale. E questo principio rappresenta la base teoretica di tutta la ricchezza dell'architettura gotica. I grandi maestri della corrente platorüco-nustica 1'hanno svolto ognuno a modo suo; S. Bonaventura ed i suoi seguaci con 1'ardenteentusiasmo della loro anima innamorata di Dio, Enrico da Gand con il suo spirito freddo e pratico di filosofe fiammingo. Anche nella poesia si fa sentire 1'influsso di questa filosofia. San Bernardo, simpatizzante col platonismo, ha con la sua esaltazione della „donna ideale", cioè la Santa Vergine, contribuito molto alla formazione di un piü alto e piü puro concetto dell'amore. Fu nell'amore simholico della donna, interpretato dal dolce stil nuovo come desiderio della saggezza, che questó concetto raggiunse la sua piü alta idealita. Poi in sulla meta del secoio XIII si unisce alla corrente platonico-mistica la strana teoria della metafisica della luce, curioso esempio di deduzione medioevale. Siccome le idee divine sono, nella loro essenza, di una perfetta chiarezza, ossia di una pura luminosita, risplendenti di una luce spirituale, cosi le loro immagini, cioè le cose terrestri, sono nella loro essenza formate dalla luce materiale, avendo esse, secondo 1'espressione di S. Bonaventura (In Sent. II, dist. 13, art. 2, qu. 2, Ed. Quaracchi, Til, p. 320 a.), un „verius et dignius esse in genereentium", secondo che vi partecipano piü o meno. Come fonte diretta di questa spiegazione schiettamente platonica sembra si debba ritenere il „Liber de Causis", uno scritto che fu attribuitoad Aristoteie, ma che non è altro che una collezione diestrattidall'.Jnstitutio Theologica" di Proclo, probabilmente redatta da un arabodel secoio IX, citata per la prima volta in occidente da Alano ab Insulis (f 1203). Certo che soltanto verso la meta del secoio XIII la metafisica della luce era professata apertamente. Roberto Grosseteste e S. Bonaventura, piü tardi anche Ulrico da Strasburgo e Witelo vi annettono varie riflessioni intorno alla matematica e all'ottica, ció che fa pensare ancora di piü all'influenza araba. Ai tempi di Dante essa trova ancora i suoi difensori, come Teodoüco da Friburgo e Bertoldo da Mosburgo (Confr. Ueberweg-Heinze: Grundriss der Geschichte der Philosophie. Bd II, Berlino 1915, pag. 525). La funzione della luce nella formazione dell essenza delle cose materiali si riconnette alla teoria propria dei neoplatonici sulle forme sostanziali. Secondo questa teoria una cosa materiale non esiste in una sola forma, ma sarebbe invece composta di materia, di corporaHtè, di sesso, di genere e di una forma individuale. Questa „pluralitas formarum" ha conseguenze importanti specialmente per 1'antropologia. Essendo il corpo definito dalla sua forma propria essenziale, 1'unita sostanziale del „compositum" umano è infranta, e 1'anima diventa indipendente non solo per ció che riguarda lo sviluppo della cognizione sensitiva, ma anche dove si tratta dell'appropriarsi delle cognizioni intellettuali, di ogni impressione materiale. Abbiamo giè parlato dell'intervento necessario deU'ispirazione divina per ottenere ogni cognizione definitiva e sicura. Ora, oltre 1'intelletto e 1'ispirazione, si presenta un altro elemento costituente della cognizione, cioè la volontè, la quale richiede per ogni esame la certezza. Quest'ultimo parere discende direttamente da S. Agostino e anche le altre teorie neoplatoniche di questa corrente scolastica erano state trasmesse quasi esclusivamente dall'Ippone, che viene considerato come la piü alta autorité in materia filosofica e teologica. Per quanto riguarda il gruppo speculativo dei platonici del secoio XIII non ce ne dobbiamo meravigliare. Sorprende invece di vedere Rogere Bacone, seguace della stessa scuola, con tutta la sua predilezione per le scienze naturali fare omaggio alla dottrina sommamente mistica di S. Agostino intorno alla conoscenza deU'ispirazione divina. Eppure facendo ciö egli è perfettamente coerente a se stesso. La cognizione per via esperimentale, bensi da lui, con zelo fervente, spinta ai risultati piü mirabili, non rimane che una debole imitazione di quella unica vera esperienza interiore che ci fa percepire, direttamente, le cose soprasensibili per mezzo deU'ispirazione divina. Questa ispirazione divina è il tormento della scuola neoplatonica medioevale e soltanto S. Tomaso d'Aquino riesce a liberarne interamente la filosofia. Ma egli con i suoi principi aristotelici non è isolato. Se dopo 1'agostinismo conservativo guardiamo 1'altroestremo, vediamo che S. Tomaso si trova presso a poco nel mezzo 8 per tutta la linea. L'cstrcmo opposto sarebbe raverroismo latino di Sigieri di Brabante e dei suoi, i quali offrono all'occidente un Aristotele modificato secondo 1'interpretazionearaba. II panteismo dinamico di Averroè nori poteva naturalmente reggersi davanti al dogma. Ma la tesi piü audace del sistema di Sigieri è quella della doppia „verita" per mezzo della quale egli pretendeva di far valere contemporaneamente due opinioni, anche se diametralmente opposte. Questa aperta contradizione poteva poco nuocere alla interpretazione cristiana. II sistema perö era come dice Mandonnet (Paris et les grandes luttes doctrinales, 1269—1272, nella Revue des Jeunes, X, 1920, pag. 502—529) „déstructeur de la conscience chrétienne", ove minacciava le basi della vita intellettuale e morale cristiana. Malgrado 1'asserzione di Vossler (o.c. pag. 181), tutta la scolastica aveva accettato il libero arbitrio, come un fatto empirico, non soltanto quale postulato della mente. Sigieri a questo oppone un triplice ostacolo. Se prima di tutto runiverso ha la sua origine neÜ'eternitè emanata da Dio per necessita naturale e si sviluppa secondo le immanenti leggi di Dio, allora non vi è posto per lavolontè individuale. Questa del resto è perfettamente determinata dalÜinteüigenza comune la quale per ciascuno di noi, nel processo della cognizione, fa la parte dell' „inteüectus agens" di Aristotele e del Nous di Plotino. In terzo luogo: l'uomo vive la sua vita secondo un destino in tutto e per tutto determinato del cosmo, e perciö dipende completamente e per 1'intero corso della sua vita dalle grandi f orze cosmiche, cioè dalle sfere celesti. Questa idea che, sotto l'influenza araba, sorge qua e lè nella scolastica, trovö un terreno giè preparate nel pensiero medioevale, abituato al simbolismo ed alla classifleazione, tanto piü che il sistema cosmico tolemaico le serviva di idoneo fondamento. La metafisica neoplatonica che considerava il cosmo come un solo organismo, dove diversi gradi d'essere(che di su prendono, e di sotto fanno, Par. II, 123), collaborando fra di loro, costituiscono la vita comune, forniva, insieme alla matese e 1'astronomia araba il materiale per un ricco simbolismo di fatalitè cosmica nella vita umana. Secondo la teoria di Sigieri non soltanto il destino dell'uomo individuale è interamente determinato dalla costellazione delle sfere celesti, ma per conseguenza, anche gli eventi della storia mondiale, lo sviluppo delle arti, delle scienze e della religione. In questa teoria sulla composizione or ganica del cosmo, teoria che domina la scolastica ai tempi di Dante, vi sarebbe forse una oscura tendenza al monismo? Persino il filosofo piü anti-monistico della scolastica, S. Tomaso d'Aquino, non è riuscito a liberarsene completamente. Anche senza volersi legare incondizionatamente al sistema tolemaico egli vad'accordo nel dire: „corpora coelestia sunt... motiva et regitiva omnium inferiorum corporum" (Summa contra Gentiles III, 82). I corpi celesti siano pur mossi da forze intelligenti (gli angeli), perö sempre rimane il fatto dell'influenza cosmica. Tuttavia egli desiderava espressamente togliere dalla universale causalita, la volonta e 1'intelligenza umana. Ê questa una inconseguenza rispetto al dogma, oppure viene piuttosto dal suo rifluto di accettare le teorie neoplatoniche-averroistiche sull'emanazione? Accettando quest'ultima spiegazione rimane il problema generale, se si deve cercare la giusta interpretazionedi Aristotele nel monismo di Sigieri, oppure nel theismodi S. Tomaso. Ame pare che Sigieri pensi secondo lo s p i r i t o naturalista dello Stagirita, mentre S. Tomaso è conseguente utilizzando 1'opera di Aristotele secondo la lettera per ar ri vare alle proprie conclusioni dualiste. In certo modo hanno dunque ragione tutti e due. Storicamente S. Tomaso si oppone in modo reciso a Sigieri di Brabante da una parte, enello stesso tempo prendeposizione contro 1'agostinismo. Per combattere quest'ultimo egli si appoggia alla sua teoria aristotelica della cognizione, mentre contro il primo si vale della sua distinzione aristotelica della realta e della possibilita nelle cose. Aristotele è dunque per il tomismo il primo maestro di filosofia, il maestro di color che sanno (Inf. IV, 131). Ma S. Tomaso trasforma il sistema peripatetico nel proprio dualismo cristiano, opponendo alla pura attualita dell'essere non creato, del primo movente di Aristotele, 1'essere misto di realta e di possibilita di ogna cosa creata. Arrivó dunque all' idea della creazione „ex riihilo". Ma non trovando nessuna soluzione sicura con argomenti ragionevoli, nè dall' una parte nè dall' altra intorno alla temporalita o 1'eternita dell' atto della creazione, S. Tomaso vi rimedia aggiungendo il „post nihilum" della rivelazione. Dello stesso principio dell' atto e potenza si vale S. Tomaso nella sua teoria della cognizione. Mentre nella cognizione dei sensi tutto il „compositum humanum" entra in azione, influenzato dalle cose esterne, la cognizione intellettuale si ottiene con 1' idea che 1' „intellectus agens" forma per mezzo dell' astrazione dalla materia offertagli dai sensi, come oggetto attuale di cognizione, dando poi questo da conoscere all' „intellectus possibilis". Questo „intellectus agens" non è considerato un fattore comune sovrumano, ma, come 1'„intellectuspossibilis", una facolta reale dell' anima umana individuale. Nella teoria della cognizione, formulata da S. Tomaso, ogni influenza della volontè, nella formazione e nella valutazione della conoscenza, era esclusa, come lo era ogni idea dell' ispirazione divina quale mezzo di cognizione o sanzione di sicurezza. Abbiamo gia visto come egli riesce per mezzo di quest'ultima a formare un criterio pratico per distinguere la fede dalla scienza. Anche su altri punti S. Tomaso con i suoi principi aristotelici si trova di faccia alle correntineoplatoniche con una dottrina d'indole piü naturalista. Basta pensare alla teoria deü'unita di forma sostanziale, la quale dal settanta era stata causa di violenti controversie. S. Tomasol'applicaancheal „compositum'' umano stabilendo che 1'anima ragionata sia Tunica forma essenziale del corpo. Sarebbe 1'anima che costituisce con la prima materia l'uomo individuale. La strana teoria del platonismo chedisprezza il corpo quale „prigionedeU'anima" vienetoltadi mezzo con il riconoscimento del corpo quale principio personale di attivita umana, sebbene inferiore aü'anima nell' essenza. Da questa teoria S. Tomaso deduceragionevolefondamento per la dottrina della risurrezione dei corpi. Secondo lui 1'anima puó esistere staccata dal corpo. Anche soggettivamente essa non è in nessun modo legata alla materia. Tuttavia è nella sua natura di essere la forma sostanziale di un corpo e per conse- guenza anche nella piü alta perfezione della sua natura, 1'anima si sente sempre attirata da questa funzione che vorrè conservare verso il soggetto materiale. per render partecipe il corpo della propria immortalita. La condizione affatto speciale delle anime, durante il periodo che trascorre dal giorno della morte fino all ultimo giudizio, conduce S. Tomaso a trar da quanto sopra ulteriori deduzioni riguardanti 1'attivitè e la conoscenza. Come dice Vossler (o.c, pag. 175-176) „Egli ha. per dire cosi, formulato le leggi naturali secondo le quali trascorre la vita delle anime nella Divina Commedia". Come abbiamo detto sopra nessuna corrente a cui abbiamo accennato, aveva ai tempi di Dante un notevole predominio nelle scuole della filosofia. Nel 1270, dopo la prima condanna di Sigieri 1'averroismo per colpa degli elementi turbolenti della „Facolta delle Arti" aU'Universita di Parigi, aveva provocato cbsordini sociali, ma quando nel 1277 segui la piü severa scomunica contro la persona e gli scritti del capo stesso qualunque propaganda si rese impossibile Con tutto ciö non si spense il pensiero di Sigieri. La considerazione nella quale era tenuto Averroè come il piü autorevole commentatore di Aristotele, considerazione che sembrava sorpassare qualche volta persino il rispetto che si portava al maestro stesso, contribuiva a salvare dall 'oblio anche le sue teorie metafisiche e cosmologiche. Alcuni averroisti, che per lo piü erano stati studenti della Facolta delle Arti ai tempi di Sigieri, obbedivano alla scomunica ehminandocon molta cura le conclusioni anti-cristiane del filosofe arabo in modo che il loro naturahsmo venne ad avvicinarsi di molto all'interpretazione tomista di Aristotele. Molti altri invece, malgrado qualunque divieto della chiesa, rimanevano fedeli aUedottrine averroiste.riparati dietro la loro teoria della „doppia verita". Quest'ultima corrente riusci a reggersi specialmente in Italia dove per mezzo di Guido Cavalcanti influenzö da vicino la formazione intellettuale di Dante. Accanto ed inopposizioneall'averroismosimantengonointegrali le correnti neoplatoniche e tomiste. S. Tomaso d'Aquino trovó i piü numerösi seguaci fra i suoi confratelli Domenicani, specialmente fra i suoi molti discepoli nelle case di studio dcU'Ordinc. Incontró pure una violcnta opposizione fra i piü conservatori dell'ambicntc suo come Durando dt St.Pourcain, Roberto Kilwardby, c in generale nei circoli di Oxford. Con tutto ciö, 1'agostinismo neoplatonico si concentrö sempre piü neU Ordine di S.Francesco, intorno a Giovanni Peckham e Matteo di Aquasparta. Ben presto il contrasto dottrinale fra S. Tomaso e S. Bonaventura, due uomini tanto legati dall'amicizia durante la loro vita, diventó caratteristico per i dueOrdini. Dal lato dei Francescani, con alcuni secolari come Enrico da Gand, prende posizione la maggior parte deifratiappartenenti agli ordini piü antichi monacali, mentre gli ordini mendicanti, Agostiniani e Carmeliti, andarono a rinforzare le file dei partigiani diS. Tomaso. Cosi troviamo disposti i partiti quando Dante verso il 1290 nutri per trenta mesi il suo grande spirito delle dottrine fllosofiche, prendendo da ciascuna quel che doveva servirgli, per raccogliere quel tesoro interno destinato ad esser riassunto poi in una interpretazione armoniosa, pura e sublime. Rolduc Dott. FERDINANDO SASSEN Pr. INTRODUZIONE ALLA „VITA NUOVA" I" a Vita Nuova, il „libretto" nel quale il ventisettenne Dante •L-'AIighieri espone il suo amor giovanile, è una delle piü meravigliose e in pari tempo straordinarie creazioni poetiche. Meravigliosa ell e per quelle caratteristiche che gia avean turbato alcuni contemporanei di Dante e che la maggior parte dei moderni critici lettori sarè certo incline a condannare come „ errori", come sfoghi insomma di artifidositè, come falso sentimento, come intellettualismo impoetico. Invero, a un primo e superficiale esame, non puó non colpirci una impressione simile: una trentina di componimenti di amore, doldssimamente scorrenti, di laudi e di elegie accompagnate da una prosa spiegativa, il cui stile sta tra la solennita del linguaggio biblico, la dimostrazione solennemente pedante e 1'ingenuo raccontare infantile: una collana di gioielli finemente lavorati, e legati con semplice rigidita. Ognuno poi di tali componimenti analizzato nella sua costruzione, nel suo contenuto, „diviso", come Dante stesso dice, in glosse, cosi aride, cosi pedanti e, per lo piü, inutili, che giè il Boccacdo, il primo commentatore ufflciale di Dante, rigettava queste „divisioni" come troppo infantili, come addirittura ridicola fanciullaggine! La sorpresa critica dell'odierno lettore, dotato di gusto „letterario", non dovrè essa aumentare quando discopre che la materia di molti di tali componimenti è, evidentemente, „inventata"? E che pure i sogni e le visioni cui Dante accenna altro non sono che „immaginazioni cerebrali"? e che ben di rado non sono tali, come nella celebre visione febbrile (§ XXIII) e nell'apparizione della beata Beatrice, bambina di nove anni, (§ XXXIX) che indiscutibilmente ci mostrano gli elementi del vero sogno? E una tale sorpresa nonminacciadimutarsiincompassionevole riprovazione, qualora si scopra che intento chiaro di Dante si Dalla - Introduzione alla „Vit» Nuova"- tradotta in olandese da Nico van Suchtelen è quello di dare alla sua lirica, cosi apparentemente spontanea, non pure una spiegazione simbolica, ma benanco una spiegazione teologico-morale? II lettore odierno non sarè egli tentato a darsi, sorridendo, una scrollatina di spalle, dinanzi a quello strano misticismo di numeri,a quella bambinesca fantasticheria delle cifre tre, nove e dieci, rappresentanti la Trinitè, i nove cieli e la perfezione, cifre che il Poeta introducé nella sua prosa per tale simbolizzazione? E ancora non sorriderè il lettore all'apparente scopo di Dante di dare un certo ordinamento numerico alle poesie sue e di esprimere quella tale voluta tendenza allegorica? E infine, egli, ü lettore, potrè mai riconoscere come „vera", come „spontanea", come sgorgante,,dalcuore", anzi come sgorgante daU\,incoscienza", una poesia, una lirica, e una lirica amorosa, quando, dopo un liticar di oltre sei secoli, i dotti commentatori non sono ancora interamente d'accordo se la donna gïorificata fosse una florentina vera creatura vivente, o non piuttosto, propriamente e ben considerata, non fosse la teologia, o la filosofia, o la virtü, o l'mtelligenza, o la chiesa cattolica, o la donna ideale „astratta", o magari la monarchia imperiale? Io non so ció che sia permesso o non permesso al gusto di un lettore ocriticoestetico.So perö questo che, cioè, per un poeta tutto è possibile. Dissi dianzi che il „Ubretto" di Dante è non solomeraviglioso, ma pure straordinario. II portentoso, lo straordinatk) del übretto sta in ciö, che quando lo si legga con puro sentimento umano, e non con arroganza di critico, nè con curiosita di fllologo, si è tratti a considerare la meravigliositè dell'opera come una necessaria e quindi rispettabilissima, e, a ben riflettere, appunto amabilissima espressione dello spirito poetico di Dante. Tutto quanto di speciale e diremo quasi di strano trovasi nel1'opera, e diciam pure dell opera in generale di Dante, strano massimamente qualora non si consideri lui nel quadro del tempo, ha la sua spiegazione nella psicologia del „vero", del „grande poeta, di quell'uomo universale, il quale, nella propria anima, completa la sintesi di tutti i contrasti, le differenze, i desideri, i sogni e grimpulsi di tutti gli uomini e di tutti i tempi. Enumerai in sul principio gli „errori" di Dante, o, se il lettore fattosi forse piü benevolente me lo permette. dirónon „errori , ma bensi „caratteristiche" dell'Alighieri. Tenterö ora di dimostrare come tali caratteristiche altro non siano chedeterminate e temporanee forme di una ed eterna scienza poëtica. E mi lusingo di riuscir a presentar Dante quale un artista, il cui spirito, nel piü intimo del suo essere, non è affatto „fuori dei nostri tempi", ma essere invece egli uno di quei poeti il quale seppe riunire in sè la triplice sintesi: di subbiettivita e obbiettivita, di sogno e di realta, di sentimento e intelligenza, grazie a cui egli potè farsi nostro eterno contemporaneo, nel cui cuore era latente e quindi si destö quello stesso Amore che nel nostro stesso cuore puö trovarsi latente e poi destarsi dinanzi alla contemplazione della Bellezza. E cosi anche Dante sempre ci rappresenta se stesso; altro egli non ci dipinge che la propria sua vita interiore. Piü fortemente, e in pari tempo nel modo piü paradossale, ciö emerge dalla „Divina Commedia", che rappresenta tutto il mondo umano e il divino. Sono i peccati di Dante, nella realta o in potenza, peccati ch'egli condanna e punisce, è la purificazione della stessa sua anima ch'egli ci narra, è la stessa sua acquisita virtü che iUumina il suo verso. La sua cupa sete di vendetta, 1'amaro suo odio, la sua avidita di sapere, la sua alta fierezza e il suo amore umile e pio, tutte le qualita insomma dello spirito suo potentemente vivo, ma in pari tempo il risultato e il riflesso delle vicende del tempo suo e della sua educazione, della sua artificiosita e della sua scolastica, tutto trova nel poeta la fedele espressione. Eppure una cosa, una sola cosa manca in quel poema di creazione, la Divina Commedia, dell'esule amareggiato; e tal cosa noi la troviamo solo nella Vita Nuova: il sorriso e le lagrime, cioè, tutta la soave sentimentalita del giovane e cavalleresco trovatore. Giacchè Dante fu, come disse ü Manzoni, non soltanto della lingua italiana maestro d'ira, ma anche maestro del sorriso. Chi studio la Divina Commedia, conosce 1'irato profeta e il peccatore pentito; ma non conosce il mite menestreüo, il tenero giovinetto che impallidisce e trema sotto lo sguardo di una fanciulletta e che „in solinga parte" bagnata „la terra d'amarissime lagrime'' e appartato di poi, nella camera sua, ivi se ne sta „come un pargoletto battuto" perchè „quella gentüissima gli negö il suo dolcissimo salutare". Non fosse adunque che per ció solo, lo studio della Vita Nuova rendesi necessario per 'chi voglia farsi un giusto concetto del carattere di Dante. Ma lo studio del „libretto" è poialtrettanto necessario qualora si voglia piü profondamente conoscere il senso delle opere dantesche. Ambedue: e la Divina Commedia e la Vita Nuova, trattano in sostanza uguale soggetto: la purificazione, cioè, delle spirito attraverso 1'Amore. La prima, la Divina Commedia, 1'epopea mondiale, è, in apparenza, piüobbietti va; la seconda, la Vita Nuova, il primo romanzo moderno, si potrebbe dire, dell'io, è in apparenza, piü subbiettiva: in realta la Commedia mostra della personalita di Dante tanto quanto la Vita Nuova mostra della impersonalitè del grande conoscitore del mondo. E tutte e due le opere hanno, nella loro e per la loro apparente artificiosa intellettualita, quelTalto e intenso sentimento, quell'interezza formale, quella indescrivibile distinzione, che costituiscono le doti delle opere d'arte piü vere e piü grandi. La venerazione della donna dovea innalzare a una vita nobile e spirituale i trovatori provenzali, come pure gli immediati precursor i di Dante, i poeti dello „stil nuovo "; la loro passion e dovea del proprio ardore purificarsi nell'amore pel sapere e per le pie meditazioni. E cosi per essi la poesia d'amore non è finalmente piü soltanto un mezzo onde affascinare con la bella grazia e la leggiadria, ma soprattutto per edificare, per insegnare; l'arte diventa cosi deliberatamente arte didattica. Ascesa eccelsa che avvicina al massimo l'arte al divino al divino e alla sua parodia. Giacchè colui che sa, sia pure un poco, e sente dentro in sè l'amor divino e lasapienza, mira sempreaedificare, a insegnare. E dir parole in rima, in fin dei conti, quasi ognuno è capace di dire cosi facilmente come il giovanetto diciottenne Dante Alighieri. Ma ben pochi sono gli eletti che possano scriver poesia. Da qui deriva quel freddo, quel riservato, quell'insensibile, nel cattivo significato, che massime noi incontriamo in quei poeti, noi che mal riesciamo a trasportarci nell 'ambiente psicologico del medioevo, noi troppo inclini a qualificare „fredda, arida, scolastica" immagini e frasi, le quali, in quei tempi e per quei poeti, racchiudevano certamente intimo calore di sentimento. Eppure, molta parte di questa poesia sarè naturalmente considerata quale raccolta di rime morte e senza vita di vcri o presunti dotti, teologi o moralisti. Non si puö invero negare che perfino in un Cavalcanti molti dei suoi sonetti e baflate, leggere, mondane, godono presso il volgo, poeticamente parlando, piü stima, per esempio, della celebre metafisica canzone sulla natura dell'amore, canzone che ai piü non èdato di godere per la sua oscura artificiosita. Ed ecco comparir Dante. Anch'egli aveva la sua „donna", legittima consorte di un altro uomo: cosi era la moda dei tempi. Anch'egli canto 1'amabile e beatifica virtü di lei, cosi come i suoi precursori e amici cantarono la „gentilezza" della donna loro, spesso con parole comuni e immagini consuete. Dante accettö e rese omaggio senza riserva alcuna alla „teoria" di messer GuiniceUi. „Amore el cor gentile", cosi canta 1'Alighieri seguendo 1'esempio del Saggio, (XX) : Amor e '1 cor gentil sono una cosa, Si come '1 Saggio in suo dittare pone, (Liefde en een edel hart zijn ganschlijk een, Gelijk de wijze dichter heeft geschreven....) Dante glorifica la sua Beatrice come un angelo inviato da Dio sulla terra per santificare ogni cosa con la luce sua, (XXVI): E par che sia una cosa venuta Da cielo in terra a miracol mostrare. (De Hemel zond tot de aarde een engel zoet, Dat ze op een vlekloos wonder konde bogen ) (XXI) : Negli occhi porta la mia donna Amore, Per che si fa gentil ciö ch'ella mira; (Mijn Vrouwe straalt zoo zoete liefde uit de oogen Dat zij verlieflijkt al wat zij aanschouwt....). Son tutte queste vod a noi note per la poesia provenzale e siciliana. Ma nelle poesie di Dante, specie in quelle che seguono la canzone „Donne che avete intelletto d'amore", v'è qualche cosa che sostanzialmente le contraddistingue dalle opere dei precursori: è questa la perfetta sintesi del sentimento edel pensiero stretti in un'indissolubile vita. Dopo la suddetta canzone Dante con piena coscienza indirizza l'arte sua alla piü alta vita del pensiero. Dico vita del pensiero e non servile imitazione in cui si facilmente il rimatore superfidale puö cadere. Ciö che presso altri era diventato o minacciava di diventare semplice e nulTaltro che semplice astrazione della parola, in Dante rimaneva vivente realta. Per lui, come per GuiniceUi ed altri, erano, amore e virtu, concetti; ma egli, Dante, non esprimeva tali concetti se questi in lui ardentemente non vivevano. Dante amö come solo un vero poeta poteva amare,conqueU'amabile pazzia che va cosi meravigliosamente accompagnata alla piü alta saviezza, sola ragion appunto questa percui egli irradia d'intorno 1'intero suo simbolismo amoroso in si calda edintima luce. Dante amava poi la realta, la concreta, tangibile realta sia delle cose, sia deUe creature. Ed egli la amava con la profondita di cui un poeta è capace e col fuoco, inoltre, di cui è capace un italiano. Nessuna astrazione quindi, nessun simbolo in Dante, che non abbia la sua base sopra una vissuta realta, nessuna beatitudine celeste che non sia spuntata da una disperazione terrestre, nessun amore divinamente quieto e sereno che non abbia tratto le sue radici nel turbine delle passioni. Dante recava in sè la grande sintesi. Egli era, o voUealmeno essere, un dotto, e ciöe vuol dire — si era nel XIII secoio — un teologo. E tutta 1'intera passione intellettuale di questo giovane auto-didatta concentravasi, convergeva nell'unica brama di analizzare, scrutare e capire. La sua avidita di sapere fu vera passione, sentimento vivissimo. Era pure un amante appassionato della natura, il cui dolce misticismo egli certo cosi intimamente e profondamente sentiva come il PovereUo di Assisi, il poeta deU'Inno al Sole. L'Alighieri fu un amante di ció ch'è veramente e puramente umano, e un amante cosïforte qual era il suo giovane contemporaneo, Giotto. Egli era un vero cospicuo fiorentino, cavaliere, fiero, impetuoso, dolce e innamoratissimo. Era in lui tutto quanto di forte e di potentemente vivo eravi nel suo tempo, e tutto ció egli stesso visse in un suo mondo proprio interiore che egli con le proprie sueforze dominava. E'forse da stupirsi se Dante nella venerazione della donna sua accoppiava 1'ardor deU'amore terreno alla purita celeste? e se Beatrice, malgradoitimididubbididottissimicommentatori, mai fu, per lo spirito poetico e amante del Poeta, una allegoria puramente immaginata, un'artificiosa portatrice d'un simbolismo intellettuale, ma sempre, invece, qual donna vivente, profondamente amata e fat taalt erna tivamente oggetto di pungenti desideri e di platonica venerazione? Non v'ha dubbio alcuno che Dante non abbia inteso far della Vita Nuova una allegoria, o quanto meno abbia inteso posteriormente di dare nel „libretto" un significato allegorico alla figura di Beatrice e agli awenimenti rappresentati. Pasqualigo, in un acutissimo e dotto studio, tentö di pro vare che Beatrice altro non è che 1'allegoria dell'amore cristiano, della carita cristiana, la quale, insieme con la scienza, assurge a sapienza divina. Non è da ammettere, dice Pasqualigo, che Dante, fanciullo di nove anni, recasse in sè le caratteristiche di una passione d'adulto, e tanto meno poi ch'egli fosse di ció cosciente e in modo cosi circostanziato come appare dall'atteggiamente del suo „spirito della vita", al primo incontro con Beatrice. Non tanto raro è invece veder dei fanciulli di quella eta pieni giè, alla loro maniera, di una profonda e severa piëta, di un ardente desiderio di Dio. Ebbene, la prima apparizione di Beatrice al nono anno di Dante significa la prima comu- nione di lui! E la seconda apparizione, nove anni piü tardi, significa la discesa della grazia divina nel cuore del giovane Poeta. II „colore bianchissimo", col quale Beatrice apparve aU'innamorato, è il colore della pace ;le due donne„di piü lunga etade'' che la accompagnavano, sono la „Fede' 'e 1' „ Innocenza "; il saluto di lei è „la Salvezza, il Regno dei beati, Cristo"; la folla, dalla quale Dante si apparta, rappresenta i desideri dei sensi; la camera segregata dalla gente è il suo proprio essere intimo; il dolce sonno che ivi lo coglie è la pace dello spirito che scende su di lui, ecc. ecc. Ora , si puó d altro canto difendere psicolog icamente il „vero'' amore del giovanetto novenne, oppure pensare che Dante per amore del nove simbolico, abbia birichinescamente mentito di un paio d'anni; si possono inoltre citare nella narrazione i numerosi passi riferentisi intimamente alla vita di lui, senza che perö tutto questo escluda 1'intento allegorico. A me, anzi, apparirebbe come abbastanza probabile che Dante, infatti, nel suo racconto abbia voluto nascondere i sovra menzionati „ significati" ed altri ancora; ma a me sembra di lieve interesse 1'andarli con ogni cura a scoprire. Inoltre, come del resto accade ogni qual volta si tratti di simboli, le inter prctazioni degli studiosi andranno molto al di la dell'intenzione stessa dell'autore. Ma Beatrice oltre che simbolo visse pure creatura r eale. Molto di essa non ci è noto. Nel suotestamento,recanteladatadell5 gennaio 1287, Folco Portinari la menziona come figlia, mogUe senza prole del banchiere Simone dei Bardi. Ció è tutto quello che sappiamo di lei in base a documenti. Perö è piü che probabile che questa Bice Portinari sia proprio la Donna di Dante; la critica moderna è su tale proposito pressochè concorde. Ma, al postutto, che importanza puö mai avere per noi se dell'apparizione di Beatrice non altro sappiamo che la vaga immagine che Dante di essa ci lascia? Non ciö ch'essa fu, ma ciö ch'essa seppe destare nello spirito di Dante ci importa per 1'esistenza di lei, che üiflne altro non fu che uno di quei piccoli episodi insignificanti da cui i poeti, non di rado, traggono lo spunto per le loro grandiose concezioni. Forse fu Beatrice dotata di una impareggiabile bellezza flsica e grande nobilta di animo, ma è certo che Dante la vedeva, sia flsicamente sia spiritualmente, ancor piü bella, ancor piü nobile, poichè egli la ricingeva dei suoi piü alti desideri. Ció è appunto quello che ogni poeta fa della donna sua, e non ogni poeta soltanto, ma chiunque al quale 1'amore dischiuda la „vita nuova". Non ricinge forse ogni amante la donna del suo cuore di mite e mistica luce che neU'immaginazione sua — sempre a seconda del modo in cui egli imparö a pensare — irradia come 1'aureola di un santo o come il diadema di una regina sognata? ma in pari tempo incorona, come che sia, la piü alta bellezza che vive e ride nel cuor dell'innamorato? Dante vedeva in Beatrice realizzato il piü alto sogno di bellezza, di purezza e di virtü; e come ogni realta che si ama e si adora diventa simbolo del suo proprio intimo desiderio di Dio. Cosi 1'opera sua — come ogni opera d'arte creata per 1'amore o nell'amore, come ogni atto di amore — è tanto derivazione e riflesso di una realta vissuta, quanto la „simbolizzazione" piü o meno cosciente di un intimo sogno. Forse la forma mistico-religiosa dell'„esaltazione" di Dante è „fuori del tempo", e, appunto per ció, almeno peinon cattolici, ardua da apprezzare; ma lo spirito di essa si puö sempre capire e sentire, e tale rimarra in eterno per ogni amante. E'chiaro che neU'amore di Dante per Beatrice fa mestieri distinguere tre fasi: fasi in cui ripetesi tutto lo sviluppo della lirica amorosa come fu piü sopra tratteggiata. In primo luogo la quasi interamente tradizionale cavalleresca adorazione della fanciulla amata, ove propriamente non si sa quale ne sia il reale motivo, se cioè la bellezza esteriore o 1'interna virtü, o se ne formi la base la brama dei sensi oppure la ammirazione spirituale. Confusione, sconcerto è il sentimento predominante che suscita Beatrice nell'Alighieri. La disperazione pel negato saluto di lei, pel disprezzo ch'ella mostra aU'ingenuo turbamento del poeta dinanzi allo sguardo amato, riempie 1'animo di lui piü di qualunque altra emozione. Quello sguardo lo prostra, eppure il pensiero solo di lei non gli basta, egli vuole anche vederla, egli desidera la bellezza di lei. Se „Amor lo assale" egh oblia come la vicinanza della donna desiderata lo strazia, (§XVI): Poscia mi sforzo, chè mi voglio atare; E cosi smorto, d'onne valor vöto, Vegno a vedervi, credendo guerire: E se io levo li occhi per guardare, Nel cor mi si comincia uno tremoto, Che fa de' polsi 1'anima partire. (En dan, wijl ik voor eigen zwakheid zwicht, Kom 'k bleek, ontdaan, van alle kracht begeven, Tot u, of me ook uw blik genezing biedt. Maar zoo ik opzie tot uw zoet gezicht, Begint nog smartlijker mijn hart te beven, En 'k voel hoe 't leven uit mijn adren vliedt). Ma ora segue, dopo una scossa fisica, diremo, e che io, con Rossetti, solo ascriverei al matrimonio di Beatrice, un periodo di purificazione, di purissima e casta adorazione, in cui le parole in lode della sua gentilissima formano Tunica felicita del Poeta. E' questo il periodo che apresi con la celebre canzone, dianzi citata: „Donne che avete intelletto d'amore" e col sonetto in cui Dante dice che amore destasiin „cuor gentile". Ivi la lingua del poeta è piü originale e piü potente, il suo cuore piü sereno. Egli non desidera piü la bellezza della sua Donna, ma loda solo la sua virtü, e se Amor fa tacere in lui tutti i sensi e lo riempie soltanto del [pensiero di lei, non piü sbalordito egli è, ma felice (§ XXVII): Si lungiamente m'ha tenuto Amore E costumato a la sua segnoria, Che si com'elli m'era forte in pria, Cosi mi sta soa ve ora nel core. (Zoolang nu heeft mij Amor in zijn macht En mij gewend aan zijne heerschappij. Dat even hard als eerst mijn slavernij Mij scheen, zij thans mij lieflijk lijkt en zacht.) Nella terza fase, quando con la morte di Beatrice cessa quella, piü o meno, non-naturale esaltazione dei suoi puri desideri, 1'adorazione di Dante assurge a una pura venerazione spirituale, che egli bensi, sedotto dalla piëta della „Donna alla finestra", potra prowisoriamente negare, ma che egli alla fine „daldolore purificato", ritroverè in un'intima e muta contemplazione della beata Beatrice „che per lo suo splendore luce" (§XLI): Oltre la sfera che piü larga gira, Passa '1 sospiro ch'esce del mio core: Intelligenza nova, che 1'Amore Piangendo mette in lui, pur sü lo tira. Quand'elli è giunto la dove disira, Vede una donna che riceve onore, E luce si che per lo suo splendore Lo peregrino spirito la mira. (Boven die sfeer die t'aller wijdste kringt Vermag mijn geest als stille zucht te stijgen; Een nieuw begrip, dat Liefde in leed verkrijgen Mij deed, heeft hem tot zulk een vlucht bezwingt. En daar, waarheen heel zijn verlangen dringt, Ziet hij een Vrouwe voor wie de englen neigen; Zóó stralend dat mijn pelgrim-geest in d'eigen Lichtgloed haar schouwt, die uit haar wezen blinkt). La triplice divisione da me sovra esposta non è affatto arbitraria. E'Dante stesso che ce 1'addita. Due volte ci paria egli infatti, nella sua prosa, di „materia nuova" ch'egli imprendera a trattare, e ambedue le volte giustappunto nei momenti in cui si manifestano, come dianzi cüssi, mutamenti nella condizione dello spirito di Dante. Divisi perció la mia traduzione in tre parti, terminanti ognuna con lepoesie piü sopra accennate. Che tale divisione sia la piü logica e realmente la giusta, è, a mio parere, provato anche da una caratteristica che riscontrasi nella composizione, caratteristica, la quale, ch'io mi sappia, da nessuno fu sino ad oggi indicata. Da lungo tempo giafusegnalato che 1'ordine successivo delle poesie è tahnente simmetrico da non potersi assolutamente ascrivere al caso. II cielo consta infatti di 26 sonetti o brevi poesie di una strofa e 5 canzoni, ognuna delle quali composta di 2 a 6 strofe: ücomplessodi tali componimenti poetici risulta quindi cosi distribuito: (9 s + c). c. 4 s. c. 4 s. c. (9 s + c). Che tale disposizione simmetrica abbia in realta un significato nascosto non lo si puö affermare; ma data la mclinazione di Dante al formalismo la cosa sembrami alquanto probabile. Faccio intanto notare che nella mia triplice distribuzionelesingole divisioni ricorrono in modo tale che i primi 2 capitoli contengono ognuno 10 componimenti poetici e il terzo undici. Considerando ora 1'ultimo sonetto come una specie di epilogo — esso racchiude infatti il risultato di quanto si è prima trattato — si avra la detta distribuzione in tre (trinita) capitoh di dieci (numero perfetto) poesie ognuno, in intera corrispondenza dunque con quel medesimo misticismo dei numeri che predomina nella Divina Commedia. (Tre cantiche, di cui due di 33 (3 X 10 + 3) canti, e uno di 33 canti, piü un prologo). Beatrice, or dunque, è realta e simbolo, la Vita Nuova lirica spontanea e voluta allegoria. E cosi è la Divina Commedia una creazione in cui il piü puro sentimento fondesi col piüaltopen- 9 siero. Ed è lo stesso pensiero che predomina nella Vita Nuova: la purificazione dello spirito attraverso le brame, gli smarr imenti, il dolore, il pentimento, fino al ritorno al Sommo Amore In ambedue le opere la identica triplice sintesi: subbiettivita ed obbiettivita, realismo e idealisme sentimento e intelletto: sintesi giovane e amabile nella Vita Nuova, virile e grandiosa nella Commedia. Come Rossetti dice nei suoi „Early Italian Poets": „ Attraverso tutta la Vita Nuova risuona una melodia come il primo e lene mormorio che udiamo la forse in un prato lontano, e che ci preannunzia 1'ampio spettacolo del mare". NICO VAN SUCHTELEN IL MISTICISMO NEL DOLCE STIL NUOVO DELLA VITA NOVA ^*hi legge attentamente la Vita Nova non puó sentirsi colpito V^da quel certo che di sovra naturale che di continuo avvolge la giovinetta fiorentina. Noi, infatti, la vediamo sempre come attraverso un velo. Capiamo, sentiamo, per cosi dire, che Beatrice venne a questa vita, scese su questa terra, per subito allontanarsene. Nè quindi puö sorprenderci l'immatura sua morte. Passa la gentilissima per via, saluta, sorride, rifluta il suo salutare, è addolorata per la morte del padre suo, paria e scherza, anche, con le donne in presenza di Dante.... ma della fanciulla stessa noi invero nulla leggiamo, nulla udiamo. Perfino i fatti esteriori sono enunciati appena, con estrema sobrieta e semplicita, enunciati, insomma, sol quanto rendonsi indispensabili per 1' esatta comprensione dei fatti interiori. Cosi, ad esempio, la citta di Firenze non è mai ricordata col vero suo nome; essa è la citta ove rAltissimo pose la sua donna, oppure la citta ove nacque, visse e mori la nobile donna. Si direbbe quasi che il nome di Firenze troppo vistososia,troppoaspramenteturbiil quieto e sereno ambiente: tutto, insomma, deve passarci dinanzi soavemente velato. Ben a ragione dice a tale proposito Gaspary che nella Vita Nova i fatti e le cose sono misurati con misure differenti da quelle usate nella vita comune. II giovane Dante se ne sta quasi sempre a certa distanza da Beatrice, nè ci è dato di sapere se la gentilissima risponda all'amore di lui, anzi se essa neppure lo capisca. Molto spiritosamente un editore inglese della Divina Commedia, Grandgent, dice: „with the flesh-and-blood Beatrice he seems to have had little more than a bowing acquaintance". Se noi dovessimo riassumere il nostro pensiero in brevi parole diremmo che 1'eternitè s'impadroni di Beatrice fin dai suoi primi anni. Frammento dal volume „Uno studio sulla Vita Nova di Dante" del Dott. Is. van Dijk (Gronmga, P. Noordhoff, 1920). «un«j«. Nel II capitolo della Vita Nova ci colpiscono soprattutto tre passi latini: — Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi; — Apparuit jam beatitudo vestra; — Heumiser! quia frequenter impeditus ero deinceps —. I tre passaggi latini, posti cosi in forma di proverbio, fanno subito pensare a citazioni della sacra Bibbia. Ma cosi non è, quantunque difficile non riesca riscontrarci certe chiare assonanze bibliche. Per esempio, nel vecchio Testamento, segnatamente, parlasi, sotto ogni forma, del Dio potente, piü potente del mortale uomo. Certe reminiscenze posson presentare pure i due ultimi passi. Ma non fa d'uopo, cosi parmi almeno, ricorrere alla Bibbia. Col primo passo, compreso nella sua significazionemistica, s'intende semphcemente dire che Dio d'ora innanzi sarè la potenza predominante nella vita del poeta. II secondo è ancora piü chiaro. Chi sia un po' addentro nella letteratura mistica, sa che la parola beatitudine è voce puramente mistica, significante la beata visione intellettuale, che è imperfetta sulla terra, ma che sarè perfetta nel cielo. II terzo è, a mio parere, il piü agevole di tutti a comprendersi. II mistico deve infatti liberarsi da questo mondo visibile; ma tale liberazione non si compie da sè. E' chiaro che quanto è fragile sulla terra, debba pur infrangersi, rompersi; ma spesso non si infrange indipendentemente da noi, al di fuori della nostra anima. II poeta dice: „Oh, potessiio sentire il tocco di una mano scomparsa, o il suono di una voce muta!" (but o for the touch of a vanish'd hand, and the sound of a voice that is still!'). Beatrice, o presto o tardi, salirè senza dubbio al cielo, ma Dante, perö, rimane in Firenze che lo caccerè in esilio! — Vi è il mondo con tutte le sue tentazioni; v'è, come dice Dante stesso, „lo mortal pondo"2) che ci tira in basso, e v'è pure come vedremo la „Donna pietosa". Aproposito delsonetto, al capitoloIII,Cochinosserva giustamente esservi bensi detto che Amore piangendo se ne va con Beatrice tra le braccia, ma nel testo espÜcativo che precede il sonetto il poeta dice come Amor con la sua donna „si ne gisse verso il cielo". L'essenziale sta dunque in ció: L'immatura dipartita di Beatrice getta giè 1'oscura ombra sua sulla sua prima ') Tennyson: break, break, break. 2) Paradiso XXVII, 64: e tu, flgliuol, che per lo mortal pondo ancor aiü tornerai. eta: fosca annunziatrice dell'imminente fine. II cuore del giovane poeta, quel cuore che la gentilissima recava in mano per ascendere con esso al cielo, dovra con dolor grande sapersi staccare, sciogliersi dalla bassa terra, daU'immagine terrena. Nel capitolo VI Dante paria di „una pistola sotto modo di serventese" che si riferisce a „sessanta tra le piü belle donne" di Firenze. Questo numero sessanta ha certamente un suo significato simbolico. I commentatori, e a ragione parmi, han qui pensato alla interpretazione simbohca divenuta classica nella chiesa; vale a dire alla nota applicazione della giacitataparola del Cantico dei Cantici, delle sessanta Regine e di una, dell'unica colomba: la teologia. Anche in Dante troviamo la stessa applicazione nel Convivio (II, 15). Ciö è vero, ma noi vi riscontriamo perö una inesattezza. Nel Cantico dei Cantici parlasi di sessanta regine e 80 spose di secondo ordine e di un numero non precisato di fanciulle. Ma nella „pistola serventese' ' comprendesi pure il nome di Beatrice fra le sessanta donne (regine). Queste son, dunque, cinquantanove, oltre Beatrice. Noi vediamo che Dante assegna un posto speciale alla sua gentilissima, e dice che il nome di lei non „sofferse stare se non in sul nove". Se Dante cita determinate voci della Bibbia latina, si puö ben essere certi che vi ha parte la critica cristiana. Egli cita due passi delle lamentazioni di Geremia, I, 12: „O voi tutti, che passate per questa strada, ponete mente, e vedete se v'ha dolor simile al mio dolore", (VII) e delle Lamentazioni I, 1: „Come mai siede solitaria la citta gia piena di popoio, la signora delle nazioni è come vedova: la donna di provincia è obbligata al tributo'' (XXVIII). Qui il simbolismo è chiarissimo. Di frequente la prima parola è dedicata alle sofferenze del Cristo, mentre le tenebre, 1'abbattimento e il lutto intorno alle croce di Cristo trovansi indicati con la seconda parola. Da tutta la Vita Nova traspare, si puó dire, attraverso il racconto la storia del Vangelo e il credo di Cristo. E solo di rado il velo richiede uno sforzo, sempre perö lieve, per capire il riposto significato. Se Dante sogna che Beatrice è morta (XXIII) egli accompagna 1'avvenimento con i piü svariati fenomeni naturali: ilsoleoscurarsi, gli uccelli cader morti, tremar fortemente la terra. Come non si puö qui pensare al terremoto alla morte di Cristo? (Matteo 27:51-54). Nel capitolo XXIV Beatrice simboleggia Cristo; cosi come Giovanna precede Beatrice, il Battista precede il Redentore, la vera Luce, dicendo: „sono la voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore". Nel capitolo XXIX Beatrice è fatta simbolo della Trinita. E' noto come Dante consideri il 9 (3 X 3). Ciö che segnatamente colpisce nella Vita Nova sono gli aspetti piü opposti con cui la morte è rappresentata. A Firenze muore „una donna giovane e di gentile aspetto molto"(VIII) che Dante avea vista sovente in compagnia di Beatrice. II poeta non puö perdonare alla morte di aver messo „in quel gentil core il suo crudele adoperare" e di aver involato a questo mondo la „cortesia". Egli si sfoga in parole di maledizione contro la morte che chiama: villana, di piëta nemica, di dolor madre antica, giudicio incontrastabile, gravoso. Eccoci invece la morte rappresentataci sotto tutt'altro, anzi contrario aspetto alla dipartita di Beatrice (XIX). Un angelo chiama e dice a Dio: Lo Cielo, che non ha altro difetto che daver lei, al suo Segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede. Poi Dante è colto da „dolorosa infermitade" (XXIII). E qui abbiamo forse la piü bella canzone del „libello"; è tutta un'armonia di splendore e di forza, senza ilmenomo convenzionalismo. II poeta è assalito dal pensiero che pure la sua Beatrice dovra un giorno morire. Egü donne e sogna che la sua gentilissima realmente sia morta. Vede nel sogno „donne andare scapigliate piangendo per la via" e un amico a dirgli: Che fai ? Non sai novella ? morta è la donna tua, ch'era si bella. Come poter esprimere il turbamento in modo piü conciso e piü forte? Indi levava il poeta gli occhi „bagnati in pianti e vedea tornare «juso in cielo" gli angeli „che parean pioggiadi manna". Dinanzi a loro movevasi una nuvoletta e il poeta ode gli angeli cantare: „osanna". Va quindi „a veder madonna morta" che donne coprivano con un velo. Tale era la quiete serena della morta „che parea dicesse: „Io sono in pace !" Ed ecco il poeta invocare per se stesso la morte: Morte, assai dolce ti tegno: tu dei omai esser cosa gentile, poi che tu se' ne la mia donna stata. Anche in seguito noi vedremo il poeta nei momenti di maggiore sconforto invocardolcemente la morte. In questa canzone si puó agevolmente riconoscere il poeta della Divina Commedia, la virtü suadiplasmareinbrevitjattiunaperfettaimmagine. Seguono ora narrazioni pietose, che forse potrebbero suscitare una „ gentileindignazione''. Nel capitolo XII incontransi, infatti, due nuovi passi latini: „Fili mi, tempus est ut praetermittantur simulacra nostra" e: „Ego tanquam centrum circuli, cui simüi modo se habent circumferentiae partes, tu autem non sic". Quanto non si sono mai lambiccati i cervelü dei commentatori sopra queste parole, il cui significato, in verita, è chiaro come la luce del sole, per chi almeno sia un po'versato nella letteratura generale religiosa. Alcuni vogliono leggere simulata in luogo di simulacra, ma cosi facendo non si chiarisce affatto la cosa, la quale, per me, è limpidissima, e tale non puö non essere a chiunque capiscaillinguaggio mistico. Miriferisco al testo classico, gia citato, di Bonaventura sul simbolismo: „omnes creaturae sunt umbrae, resonantiae et picturae, sunt vestigia et simulacra et spectacula". E ancora: „quae (creatura) tune fallitur et errat, cum effigiem et simulacra pro veritate acceptat".1) Non mi pare che tutto ciö possa presentare la menoma ombra di difficolta: questo nostro mondo bello, che ovunque e sempre rievoca il mondo delTeternita, altro infine non è che una sua pura immagine, che se ne dovra staccare e sulla quale non è lecito soffermarsi. Piü pietosa ancora è rinterpretazione svariataediscordeche si è voluta dare al circolo. Nella letteratura religiosa incontransi frequenti passi in cui Dio è paragonato a un circolo, quale espressione plastica dell'eterno, deU'infinito, del perfetto. Felice è la simüitudine. La circonferenza, infatti, non ha un punto di principio, nè un punto di fine, nè si puö misurarla, poichè non 1) Ittaerarium mentis In Deum, cap. 2,3. si è trovata ancora la quadratura del circolo. Giè Plotino, per rappresentare 1'Ente Supremo, si vale del circolo e del suo centro1). L'Aquinate chiama 1'amore discendente e ascendente deU'Universo „Qrculus aeternus, in non errante convolutione circumambulans"2). Suso dice: „Dio è come un anello circolare, il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo'' (Gott ist als ein zirkeliger Ring, desRingesmittlerPunktallenthalben ist, und sein Umschwank nirgends). E Pascal nei suoi „Pensees" sulla natura infinita: „C'est une sphère infinie, dont le centre est partout, la circonférence nulle part". Piü tardi vedemmo spesso questa immagine trasportata a rappresentare Dio. Cochin fu certo il piü infelice. Egli pensa anzitutto alla morale di Dante : pone la virtü ad eguale distanza da tutti i vizi. Poi corre col pensiero agü ultimi versi del Paradiso dantesco, e gli pare di aver fatto una vera scoperta che attiró in seguito 1'attenzione di alcuni dotti. Dante, in quegli ultimi versi, dice: giè volgeva il mio disiro e il veile, si come ruota ch'igualmente è mossa, L'Amor che muove il sole e le altre stelle. (Par. XXXIII, 145). Ebbene, Cochin vede, o meglio suppone di vedere, in quella ruota il circolo tanto cercato. Ma se egü avesse benletto i versi che precedono, avrebbe facilmente trovato la soluzione deU'enigma in Dante stesso. II poeta ivi paria infatti di: tre giri Di tre colori e d'una continenza; (Par» XXXIII, 117). Qui Dante intende naturalmente significare la Trinitè, e si paragona lui stesso anzi al geometra che un tal circolo nonpuö misurare. Piü chiari di cosi credo che non si possa essere. II senso dunque del passo latino è questo: Io sono Dio eterno. infinito, perfetto; tu sei uomo finito, mortale, ancor sempre schiavo delle limitazioni e ostacoli terreni. Dissi giè altra volta come la mistica visione della vita sia da ricercarsi nel „übello" giovanile di Dante. Ció che viene prin- ')Ennead.I,7, le VI, 5,4/5. ...... «/, vi ')Nei commenti dell' Aqulnate su , De Di vinis Nominibus" dell Aeropagita, cap.I V.lez JU. cipalmente a corrispondcrc a quanto segue: „contemptus mundi", lo peregrino spirito, lotta dei sensi, contemplazione ed estasi, impotenza ad esprimere il mondo che si svolge, durante 1'estasi, neU'anima. Soffermiamoci ora brevemente su ognuno di questi singoli punti. Contemptus mundi. Ora che Beatrice se n'èandata di questa terra, la vita ha perduto per ü Poeta ogni suo valore, ogni suo colore. II suo sconforto lo spinge di ora in ora alla morte. Dio chiama a sè Beatrice nel Cielo perchè vide che questa vita „noiosa" non era piü degna di lei. Ch'è mai la mia vita, esclama il poeta, ora che la mia Donna è ascesa al cielo a fianco di Maria? La vita gli riesce „acerba" e „oscura", ogni splendore è scomparso. Tutto è tristezza, a ogni momento egli impiega la parola „dolente": tutto soffre: i suoi occhi, il suo amore, il suo cuore,i suoi sospiri, il volto e la stessa citta (Firenze)! Loperegrinospirito. Non deve meravigliarci di riscontrare questo peregrino spirito. Amore gli era gia apparso „in abito legger di pellegrino" (IX). Verso la fine Dante paria de „lo peregrino spirito". Nel capitolo XL il poeta paria dei pellegrinaggi dei fedeli. Molti di essi accorrono per contemplare 1'immagine del volto del Redentore nella sacra sindone. I pellegrini „vanno pensando forse a cosa che è presente", vanno alla tomba di San Giacomo di Compostella nella Gallizia. II poeta vorrebbe farli partecipi dello strazio suo e del lutto della „dolorosa cittade". Io propendo a credere che Cochin abbia ragione se in questo passo vede una sia pur lieve allusione al noto racconto dei pellegrini di Emmaus. La somiglianza molto ci colpisce. Dante dice (XI):, e non credo che anche udis- sero parlare di questa donna, e non nesannoniente.anzililoro pensieri sono d'altre cose che di queste qui". In San Luca 24:18 leggesi: „Tu solo se' forestiere in Gerusalemme, sicchè non sappi quello che quivi è accaduto in questi giorni?" Lotta dei sensi. II mio pensiero corre subito alla Donna pietosa „la quale", dice il poeta, „da una finestra mi riguardava" (XXXV). Questa donna ha grande e sincera piëta dilui che piange si amaramente la morte della sua Beatrice. Io non intendo affatto qui pronunciarmi se questa Donna pietosa sia donna reale di carne e d'ossa, o se non piuttosto debba ritenersi quale simbolo delle terrene tentazioni. L'essenziale è che questo mondo effimero e vano ha, in qualche maniera, ancor presa sull'anïmo del poeta. Io, per me, sento di dover schierarmi dal lato della realita in pari tempo basandomi su di una osservazione del Gaspary, il quale afferma recisamente che il „lato terreno" era potente nel poeta del dolce stil nuovo. Dante in sul principo è colpito dallo sguardo pietoso della Donna, ben presto sentesi poi da quello sguardo attratto e cosi fortemente „che li miei occhi" dice il poeta „si cominciaro a dilettare troppo di vederla". Egli paria della battaglia dei suoi pensieri, e confessa egli stesso che la vittoria è dalla parte della pietosa. Trovasi il poeta in una „orribile condizione", impreca alla vanita degli occhi suoi. La salvezza in questa lotta s'awicina. Egli s'immagina di vedere la „gloriosa Beatrice" vestita come la prima volta che gli era apparsa di color „sanguigno" e di quella stessa giovane eta. Egli „si cominciö dolorosamente a pentere" della sua infedelta alla „costanzia della ragione" (XXXIX). Discaccia tutti i suoi bassi desideri e ogni suo pensiero torna a Beatrice e ripete il dolce suo nome. II pianto disegna intorno ai suoi occhi „un colore porporeo" e Amore „li 'ncerchia di corona di martin'. Chi non pensa a questo punto alla preghiera del Purgatorio? Contemplazione ed estasi, impotenza d'espressione. Tutto in forme sobrie. Qui Dante paria d'„intelligenza nova", il cui concetto troppo poco attirö e fermö 1'attenzione dei chiosatori. Oltre la spera, che piü alta gira, passa '1 sospiro ch'esce dal mio core; intelligenza nova ... pur su lo tira. (XLI). E come il sospiro del suo cuore giunge cola ove giungere desidera, il poeta vede la sua Donna talmente splendere nella gloria sua che „lo peregrino spirito la mira". E il suo pensiero, dice Dante, sale tanto che il suo intelletto non lo puö comprendere „con ciö sia che '1 nostro intelletto s'abbia a quelle benedette anime, si come 1'occhio debole al sole". Ma, pur non potendo egli dir tutto, sa dire che ogni suo pensiero è rivolto alla sua Donna e in ogni suo pensiero ode sempre il nome della sua Beatrice, Dante finisce la Vita Nova con un proponimento eunvoto. Col proponimento, se la sua vita „duri per alquanti anni' ',di dire della sua Donna cose che mai furono dette d'alcun'altra donna mortale. II poeta, con la Divina Commedia, mantenne, e in modo veramente alto, il fatto proponimento. Nel poema divino egli cantera „la seconda bellezza" (Purg. XXXI, 138) di lei, che è „amanza del Primo Amante (Par. IV, 118). Infine, esprime egli il voto, la preghiera che aDio „ch'eesiredelacortesia" piaccia che 1'anima sua „sen possa gire a vedere la gloria della sua Donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira nella faccia di Colui qui est per omnia saecula benedictus". Sire de la Cortesia, dice il poeta: Dante rimane, or dunque, trovatore sin nello sfogo dei suoi piü ardenti desideri. Mi lusingo di non essermi troppo indugiato in nessun punto del mio studio. Molto piü avrei potuto estendermi, ma per non ingolfarmi in chiose dubbie e vaghe, ho creduto far bene di lasciar mi guidare, e in pari tempo limitare, dal seguente concetto che per me risuona quale un monito: qualora si voglia spiegare un „libretto" simbolico diun tale significato come la Vita Nova, facile è cadere nel vago, neU'indistinto. Dante stesso dice nel Convivio che nella Vita Nova molte cose vide come in un sogno.1) Dott. IS. VAN DIJK ') Convivio, II, 13: per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando giè vedea, siccome nella Vita Nuova si puó vedere. ISPIRAZIONE AMOROSA 11 rinnovamento spirituale dell'uomo è, per Dante, un viaggio mistico per 1'universo. Come la cattedrale è 1'ambiente del1'ufficio divino, cosi 1'universo è 1'ambiente della vita spirituale. Tanto il concetto del mondo, quanto il concetto della vita è in Dante frutto della sua ispirazione. Dante è daU'amore ispirato alla sua filosofia, la cuiradiceriscontrasiappuntonell'amore. .... Io mi son un che, quando Amor mi spira, noto, ed a quel modo Che detta dentro vo' significando. (Purg. XXIV, 52) L'ispirazione amorosa è dunque 1'origine, la radice del misticismo dantesco. A tale riguardo Dante ricollegasi a Platone, al misticismo medioevale e al movimento poetico del tempo suo. A tale riguardo manifestasi egli proprio agli antipodi della teologia scolastica, con la quale, a torto, vuolsi far coincidere la sua filosofia: egli volge a suo senno la teologia scolastica, ma egli suo seguace non è. II mistico Bernardo, infatti, e non lo scolastico San Tommaso d'Aquino, ha lamassimavenerazione dell'Alighieri (Parad. XXXI). Anteriormente a Dante la scienza chiesastica fu completata dal sistema scolastico-teologico del dottoreangelico Tommaso, sistema accettato dalla massima parte della cristianita scientifica. Questo teologo, in sulle prime combattuto, ma poscia ben presto salutato come segnacolo di verita, non riusciperóavincere 1'altra corrente spirituale, il misticismo, come nonriusciad avere il soprawento sul libero pensiero. La speculazione mistica dove va sorgere vigorosa nel secoio XIV, avendo gia avuto dianzi, massime a Parigi, i suoi maestri. Per 1'influsso della scolastica il misticismo fu svalutato ben presto quale un'eresia. E la scolastica instauró nella chiesa il concetto che la piena verita non doveva farsi derivare dalla coscienza, ma da quanto era scritto sui testi: nessun'altra sapienza all'infuori Dal volume: „11 mistico viaggio di Dante", di J. D. Bierens de Haan. di questa. Perö il misticismo non ammetteva in sè nessun'altra origine caratteristica se non 1'intelletto umano, poichè appunto questo era suscettibile di luce spirituale e l'uomo puó concepire tanta verita quanta verita è in lui (quantum ipse est). Ma altrimenti pensava la scolastica che fu dichiarata quale teologia chiesastica e quale dottrina ufficiale. La verita, che Dio affidö alle sacre scritture, doveva essere sistematizzata dai teologi; una parte, diremo cosi, secondaria poteva rintracciarsi per via di naturale ragionamento, ma in tutto ciö la ragione dovea ritenere se stessa come umile serva, e non arrogarsi una parte da maestra con facolta superiori. Ci sono i testi scritti: se ne tolgano i brani e li si compongano insieme! Siate per il resto quanto piü vi è possibile saggi e ragionevoli, ma non costruite sulla vostra sola coscienza un concetto della realta spirituale. Non siate dall'amore ispirati alla scienza umana, come tanto piace ai mistici! Se noi poniamo 1'anno 1300 come il „mezzo del cammino" della vita di Dante, come lui stesso dice, yedremo come la grande corrente di una tale teologia scolastica tenda a decrescere. Dante visse proprio quando 1'intelletto chiesastico avea raggiunto 1'apice suo e lo spirito culturale dovea volgersi ad altre vie. Sorse bensi una seconda corrente che nei secoli XIV e XV diede copiose produzioni teologico-filosofiche, ma non potè mai uguagliare la prima corrente. In luogo della preparazione alla dottrina teologica, in Italia l'arte assurgera a massimo interesse della civilta spirituale entro le chiese e fuori: è la, su quel terreno, che doveano sorgere le opere dei massimi spiriti. Dante e Giotto hanno inaugurato una nuova êra. Ma Dante e Giotto, contemporanei ed amici, ambedue horen tini, pittore 1'uno, 1'altro poeta, erano pensatori. Con loro s'inaugura dunque una nuova cultura, un nuovo pensiero. E non trattasi qui di pensiero di second'ordine, ma di pensiero fondamentale che contraddistingue la nuova dalla precedente cultura. Vediamo cosi anche 1'opera di Dante scaturire da un nuovo pensiero fondamentale, e 1'identicaconstatazionepotremo fare se dall'Alighieri passeremo a contemplare la grande e copiosa opera plastica di Giotto. II pensiero fondamentale è il pensiero che riguarda l'uomo, e questi èmutato. La verita, qual vive in Dante, non è piü una emanazione dal di fuori, ma è ispirata dall'interiore. Per il Sommo Poeta nella coscienza umana vive una forza ispiratrice e che addita la verita: è questa la piü umana di tutte le forze: 1'Amore. Con tal nuovo pensiero fondamentale, nuovo infatti di fronte alle dottrine precedenti, pensiero moderno e preconizzante tempi a venire, Dante non intende far opposizione alcuna alla scienza scolastica. Contro di essa egli non insorge, accettaanzi la dottrina dell'Aquinate, da un canto, e di Bonaventura dal1'altro, e di ambedue il concetto sulla vita e sul futuro. Mal'essenziale non sta qui. Tutto 1'antico assume in Dante significazione nuova, o muta, comunque, il proprio carattere nei nuovi rapporti d'ambiente in cui viene a trovarsi. Tutte le argomentazioni scolastiche cadono di fronte al concetto universale del1'Amore, e noi vediamo, si puö dire, Dante accettare la dogmatica cristiana medioevale e passar via innanzi. Egli passa via, perchè mira ad altro. L' Amore, come forza ispiratrice, è er os. E'mestieri qui nettamente distinguere, onde farsi del poeta un concetto esatto, conoscerlo quale in realta egli è: è 1'Amore erotico da cui Dante si lascia ispirare, ed è dallo stesso Amore erotico che egli formasi il concetto del mondo e della vita.L'amoremorale che nel pensiero cristiano è tenuto per 1'unico amore onesto e degno, non è certo quella forza da cui Dante trae 1'ispirazione sua. Detto amore morale è una virtü, come tante altre ve ne sono, ma eros è una forza, è la forza dominante nella vita deirAlighieri. Le origini di questo eros sono menzionate nell'affascinante opera giovanile del poeta: nella Vita Nuova 1'amore di Dante per Beatrice giovinetta è narrato e cantato con le piü commoventi note. Un senso di delizia e d'intima gioia lascia a lui il pensiero di lei, morta, della „gloriosa donna della mia mente", e quand'ella „apparve vestita di nobilissimo colqre umile ed onesto sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima eta si convenia, in quel punto dico veramente che lo spirito della vita, lo qual dimora nella secretissima camera del mi' cuore, cominciö a tremar si fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando dissi queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi". E quando Beatrice lo „saluto molto virtuosamente tanto che gli parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine", Dante, come inebriato si parti da le genti e commosso da tanta gentilezza si ritirö nella solinga sua camera e si pose a pensare di quella „cortesissima". „Dico che quando ella appario da parte alcuna, per la speranza delle mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso: e chi allora m'avesse addimandato di cosa alcuna, la mia risponsione sarebbe stata solamente: „Amore" con viso vestitod'umilta.... Sicchè appare manifestamente che nelle sue salute abitava la mia beatitudine". Una tale commozione amorosa si trasformó in Dante e non fu piü commozione, ma fonte superioredi conoscenza delle cose universe e di quelle della vita. In forza dell'eros 1'Alighieri potè capire l'armonia del creato. Simile giudizio suonera strano all'orecchio di chi nell'amore erotico altro non vede che una emozione naturale che spinge l'uomo ad appagarelabramadei sensi nel contatto con la donna. Che Ier os a piü nobili cose ispiri che non alla soddisfazione dei sensi, è concetto inteso non da Dante solo, ma, con lui, da tutti quei molti pensatori e quei molti poeti che l'amor di una donna ispirö. L'emozione amorosa si spiritualizza e assurge a coscienza dell 'armonia del1'universo, la quale è contemplata con quello stesso sguardo con cui 1'amante contempla la donna dell'amor suo. L'oggetto e la forza stessa dell'amore spogliansi della loro determinatezza e si allargano, cosicchè l'uomo amante ama nella sua donna l'armonia del creato, e nell'amor suo sente la forza creatrice che illumina 1'universo. L'amante cosi assurge alle proporzioni di un dio. Tale „idealizzazione" dell'amore, quantunque non cosi alta, riscontrasi gia anteriormente a Dante. Un secoio innanzi fiorivano i trovatori nella Francia del sud. In tutta la Provenza, la cui lingua fu la prima che nel campo della cultura si parlö dopo la caduta del latino, aprivasi un mondo di liberi spiriti, liberi confessioni e liberi canti. Nel vasto ambiente la chiesa avea perduto ogni sua influenza, ragion questa per la quale da un lato i costumi si hberarono dall'autorita dei preti e dall'altro lo spirito rehgioso si spinse aü'estremo dell'ascesi e dell'eresia. Da ogni ceto sociale uscivano individui con poetiche doti di trovatori. Eranvene pure di sangue principesco che, seguendo 1'intima vocazione, entravan nei ranghi comuni e vi si confondevano. Iloro canti si proponevan come tema principale 1'amore e la glorificazione della donna; e, conformemente alle usanze in valse nel medio evo, quei canti glorificavano, per lo piü, una donna, di nobüe casato, sposata. Le gesta dei trovatori e la lingua di Provénza, quale lingua poëtica, eran gia entrate nella Sicilia e nel resto d'Italia, alle corti dei principi e nei castelli dei nobili. Ma in quei canti per 1'Amore e per la donna era custodito il germe della glorificazione che s'innalzera di poi sovra ognideterminatezza dell'oggetto, cosi come s'ebbe nella scuola poëtica di Bologna. Quando lo spirito poetico ebbe ad allargarsi e ad abbracciare piü ampi orizzonti che non la determinata bellezza di una data figura femminile, allora 1'intera armonia del mondo, in cui beavasi il poeta, dovette concentrarsinell'immagine della donna: ed ecco la donna fatta Dea. E tale ascesa venne agevolata anche dal fatto che la stessa commozione amorosa non era che una divina tendenza di spiritualizzare.1) L'amore spiritualizzato puó diventare fonte di sapere nel mondo e nella vita, inquantochè esso siiüumina dell'inteüigenza. L'amore non è soltanto sentito, ma pensato. Esso stessoconduce non solo al canto e al pianto, ma si pure alla conoscenza. La coscienza illuminata e approfondita concepisce nell'amore un' ar monia di piü ampie pr oporzioni. Nell'amore l'uomo amante è meno consapevole del contrasto tra il principio femminile e quello maschile, che non dell'unita e del rapporto armonico con la donna; ma ciö che in questa determinata forma gli si ») G. 1. Anglade, Les Troubadours. Paris 1908, Ch. IV (la doctrine de lamour courtois): p. 76 e s. Dans la poesie courtoise des troubadours, 1'amour est concu de trés bonne heure comme un culte, presque comme une religion. presenta è, in sostanza, qualcosa di piü vasto. L'armonia fra due anime è la stessa armonia che tiene unito tutto 1'universo; e si puö talmente approfondirsi in una determinata armonia da riuscire nell 'universale. L'amante puó, nel suo amore, glorificare la donna cosi da venerare in essa 1'universo: amare la donna quale una Stella. E' per la q ualitè dell'amore che la donna assurge a tanta altezza. Non la violenza, la durata, nè il grado di affetto, ma la qualita dell'amore contiene questa spiritualizzazione; cosi avviene della nobilta spirituale dell'animo poetico: l'amore gli è fonte d'ispirazione di scienza superiore. La commozione amorosa di Dante per Beatrice è si alta e si nobile, ed è da lui si profondamente sentita che assurge ad ammirazione commossa per l'armonia dell'universo. In realta altro non è che una autoesperienza, e Dante esperimenta in questa commozione la sua profondita spirituale a lui stesso dianzi ignota. E in grazia di essa egli capisce l'armonia che tiene unito il mondo intero. II desiderio di amore, per la sua profondita, produce „rivelazione". A proposito di quel „disio" che chiamasi „amore", e con l'amore è indissolubilmente congiunto (Par. XXIV, 132), il poeta dichiara che in forza di questo stesso amore lo spettatore delle gerarchie celesti, Dionisio Areopagita, „acontemplar questi ordini si mise" (Par. XXVIII, 131). E non puö essere altrimenti, giacchè l'amante spiritualizzato contempla con gli occhi di Dio. In realta egli vive della forza che crea il mondo — similmente Paolo, nel capitolo dell'amore, si ascrive una scienza che coincide con la divina coscienza (I. Corinti, XIII, 12). Non si dica perö che 1'Alighieri filosof eggi suil' amore in modo artificioso, come aridi spiriti accusarono i poeti di giuocare, per cosi dire, coü'animo loro, e come Dante stesso infatti accusato fu di troppo „allegorizzare". Beatrice è quindi la denominazione allegorica della teologia, e la vera Beatrice, di carne e d'ossa, è gia da un pezzo dimendcata innanzi alla comparsa di Beatrice assurta a simbolo. Per una personificazione tale, per una virtü personificata, o per una dea spiritualizzata, che rappresenti la teologia, non si puö piünutrire che un interessamento artificioso, e 1'ardore di Dante per questa sua „gentilissima", 10 altro non apparirebbe che esaltazione. Le cose stanno, invero, ben altrimentil Allorquando Beatrice, interamente spiritualizzata, appare a Dante nel Paradiso terrestre, il cuore di lui „d'antico amor sentï la granpotenza"(Purg.XXX,39): e „men che dramma di sangue" gü rimase che non tremasse. Eran quelli „i segni dell'antica fiamma". Una vera epuravenerazione amorosa forma la base del culto per Beatrice, come vedremo chiaramente innanzi. E' puro e ros ciö che ispira aDante il suo concetto del mondo. II pensiero infatti svegliasi poichè leesperienze della vita lo svegliano, ma se eros altro non fosse che un giuoco della fantasia, non v'ha dubbio che una tale virtü suscitatrice verrebbe amancare. Eros è una forza che produce, che crea e stimola. Similmente troviamo eros in Platone quale forza suscitatrice delle opere dello spirito. II nostro stimoloalla creazione düninuisce non appena ci si presenti un oggetto che ci disturbi e ci turbi; l'amore erotico possiede la sua potenza stimolatrice, inquantochè la sua armonica sostanza esorta e favorisce la nostra virtü spirituale. In forza di una tale ispirazione il concetto del mondo in Dante allontanasi dal concetto chiesastico. . L'ispirazione erotica sta dunque in ció che, dalla virtü dell'amore per la donna, l'amore stesso è considerato come armonia del mondo compenetrata nella coscienza. E in questa luce superiore la donna stessa è glorificata. Se la donna dunque è glorificata lo è perchè è dessa oggetto dell'amore, e questi due fattori, 1'Amore e la Donna, sono alla fine cosi indissolubilmente compenetrafi che ben a stento si potrè 1'unadall'altro distinguere. Nel concetto dell'amore peró essi possono essere distinti. La donna in se stessa non puó mai comporre il simbolo dell'armonia del mondo; ma tal simbolo bensï ce lo da il rapporto tra l'uomo amante e la sua donna. Cosïnella Vita Nuova è piü 1'Amore che 1'oggetto suo cui spetta 1'onor massimo. Dante dice infatti come il saggio: „Amore e '1 cor gentil sono una cosa". , Un secoio e mezzo prima di Dante, San BernardodiUuaravalle (1150) lasció scritto: „Tantum Deus cognosciturquantum düigitur". Dio è conosciuto in quanto è amato. Anche qui dunque è 1'Amore un'ispirazione della scienza; ma è questa un'altra commozione, differente da quella intesa da Dante, quantunque questi abbia nominato, con grande onore, il maestro cristiano ad illustratore ed esplicatore della suprema visione nel Paradiso celeste (Parad. XXX). II suo detto è dall'Alighieri cosi dunque modificato: 1'universo è conosciuto in quanto si ama. Ció, quindi, che in San Bernardo è teologico, in Dante è mutato in antropologico. Ambedue, e San Bernardo e Dante, hanno, ciascuno nella loro maniera, vinto la scolastica. L'ispirazione della scienza mediante 1' e r o s non nacque del resto in Dante, ma sibbene in Platone; e in questa comunanza di spirito il massimo pensatore e il massimo poeta porgonsi la mano. In Platone l'ispirazione è forza di luce filosofica che ha 1'inizio suo nella contemplazione della bellezza fisica e la sua mèta finale nella contemplazione del Bello come idea, vale a dire la contemplazione dell'Idea stessa come legge e armonia dell'universo. L'eros di Dante e 1'eros di Platone mirano a un identico fine, pur differendo i punti di partenza. Tanto per il pensatore, quanto per il poeta sta indiscutibile il fatto che colui il quale è dominato dall'ero s è capace di piü alte cognizioni, alle quali non sapeva prima assurgere. Lascia te, or dunque, svilupparsi, maturarsi in voi l'eros e diventerete spettatori, contemplatori dell'universo: sarete veggenti! Dott. J. D. BIERENS DE HAAN INFERNO III1-9, COMMENTO Per me si va nella citta dolente, Per me si va nell'eterno dolore, Per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: Fecemi la divina potestate, La somma sapienza, e il primo amore. Dinanzi a me non fur cose create Se non eterne, ed io eterno duro: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate 1 Queste parole, profonde di significato e minacciose di tono, o, come Dante stesso dice nel verso decimo, „dicolore oscuro", sono dal poeta poste al sommo della porta dell'Inferno, all'ingresso della citta dell'eterno dolore. Fosche e forti son esse e coi loro cupi suoni ci preannunziano 1'infinito dolore dei dannati, eterno, senza tregua nè diminuzione, e senza speranza alcuna di salvezza; proclamano in pari tempo la giustizia di Colui che neH'infinita sua Potenza, nell'infinita Sapienza e nel1'infinito Amore creö questo luogo d'immensatristezza.Eppure, taü parole hanno in sè la virtü di far nascere in noi la piëta per la sorte degü infelici, per le „genti dolorose" (verso 17) abitatrici di questa citta. Segnatamente neU'ultimo verso gnomico, „Lasciate ogni speranza voi ch'entrate", il poeta esprimeun'infinita accasciante mestizia, e noi sentiamo in esso come un monito a noi rivolto dalla stessa voce dei dannati. Nè Omero, nè Virgüio, nelle loro rappresentazioni ultraterrene, posero parole simüi all'ingresso del regno infernale. Dante non potè quindi ispirarsi agli antichi, nè tanto meno imitarli. Si potrebbe forse spiegare la cosa colla differenza che corre tra l'inferno del fiorentino e quello dei classici. In Omero e Virgüio esso non è solo soggiorno dei dannati e deimalvagi, ma benanco dimora dei beati e dei giusti: nell'inferno dei classici vivono gli spiriti dei trapassati, tanto dei peccatori quanto dei buoni. Dante, il teologo cristiano, chiama Inferno solo quella parte dei regni d'oltretomba ove i dannati, imiseri hanno il loro eterno soggiorno. Ma egli, 1'Alighieri, oltre all'Inferno conosce pure il Purgatorio, soggiorno di quelle anime che dovran essere purificate prima di poter ascendere al cielo, e il Paradiso, dimora dei beati, di coloro, cioè, che sonammessi all 'eterna e beatifica vista di Dio. Anche presso epici posteriori, come il Tasso, Klopstock e Milton, i quali inserirono nei loro poemi un episodio, in cui descrivesi il viaggio all'inferno di un eroe o le potenze degli spiriti infernali, invano cercherebbesi una scritta che possa comunque ricordare le parole che Dante pone all'ingresso della „dolente citta". Come generale spiegazione di un tal fatto potremmo noi addurre la circostanza che nessuno dei summenzionati poeti, come nessun altro dell'antichita, nè di quelli che vennero dopo di Dante, cantarono l'inferno cosi ex-professo come il poeta italiano fece nel suo. Diremo inoltre che presso i classici una tale scritta si sarebbe potuta soltanto riferire a quella parte dell'oltretomba che chiamasi Inferno, ció che sarebbe stato, a ben riguardare, fuori di luogo. Quell'esteriore configurazione della scritta all'ingresso dell'Inferno non è cosa fortuita, ma voluta appositamente dal poeta col suo spirito scolastico e colla sua predilezione pel numero tre. La scritta consta di tre terzine. Ogni terzina contiene un pensiero principale, un'idea fondamentale, sviluppata poi con un certo parallelismo nei tre versi. Piü chiaro e piü pronunciato è tale parallelismo nella prima terzina: Per me si va nella citta dolente, Per me si va nell'eterno dolore, Per me si va tra la perduta gente. Questa „citta dolente" è, secondo la maggior parte dei commentatori, la citta di Dite, del Dio dell'Inferno; del regno, dunque, di Plutone. Perö non sarebbe qui neppure impossibile un'allusione del poeta alla citta di Dite dell'ottavo canto, benchè questa citta formi soltanto una piccola parte di tutto l'inferno, e lungo sia il cammino da percorrere dall'ingresso per giungere alla detta citta. Nemmen Virgilio, il maestro di Dante, invero, è tanto preciso nell'uso del nome Dite. Se egli, nel libro VI dell'Eneide paria di „atri janua Dit is" (verso 127) e di „domos Ditis" (verso 269), intende tutto 1'intero regno sotto la signoria del Dio Dite, il Giove dell'Inferno classico. Cosi nel libro V, verso 731: Ditis tarnen ante infernas accede domos... e ove poi Virgilio, nei versi seguenti: non me impia namque Tartara habent, tristes umbrae, sed amoena piorum concilia Elysiumque colo, divide questa Ditis domos in Tartara ed Elyseum, il poeta latino allude a tutto intero il regno degli spiriti. Nel libro VI, verso 541, Virgilio sembra precisi meglio e limiti il significato di „moenia Ditis" alla meta destra deU'Inferno, ove trovasi pure 1'Eliso, e vi pone di fronte il soggiorno dei malvagi, il Tartaro che è a sinistra. „Dextera quae Ditis magni sub moenia tendit, hac iter Elysium nobis; at laeva malorum excercet poenas et ad impia Tartara mittit. Eppure sembrerebbe che Dante, con la sua „citta dolente" alludesse, condizionamente, alla citta di Dite dell'VIII canto, come appunto appare dalla comparazione dei versi: Omai, figliuolo, S'appressa la citta che ha nome Dite, (Inf. VIII, 67) col canto IX, versi 31-32: Questa palude, che '1 gran puzzo spira, Cinge d'intorno la citta dolente. Con le parole „eterno dolore", il poeta vuol significare esplicitamente 1'eternita delle pene infernali (poena sensus) in perfetta concordanza con le parole di Cristo nel Vangelo: „Ubi vermis eorum non moritur et ignis non extinguitur" (Mare. 9,47). Maancheilsuo maestro classico, Virgiho, conoscel'eternita delle pene infernali: ne sono chiara testimomanzaleespressioni seguenti: aeternum latrans(EneideVI,401)dettodelCerbero, .... Sedet aeternumque sedebit Infelix Theseus (Eneide VI, 617-618) Nel terzo verso Dante chiama i dannati la perduta gente, perchè essi son perduti per 1'eternita, ed è tolta loro la vita del1'anima, la grazia, la beatitudine. In un altro passo dell'Inferno (canto IX, 79) 1'Alighieri paria nell'identico senso di „anime distrutte". I dannati non sono soltanto morti in quanto il corpo, ma han perduto la vita dell'anima, o, come Dante stesso dice nel verso 18 del canto III: ... hanno perduto il ben dello intelletto. Dio è, dunque, la prima Veritas, la Veritasinnata. Come tale Dio è il b o n u m segnatamente per 1'intelletto umano, il cui oggetto è omne verum intelligibile. Siccome Dio è il summum intelligibile, egli è pure xar* iSo%^i> il ben dell'intelletto. Ora l'uomo trova la sua piü alta soddisfazione, come essere intelligente, nell'appagamento della sua piü alta facoltè, vale a dire, nell'intelletto. Ê quindi, colui che ha perduto il supremo bonum del suo intelletto, cioè Dio, e 1'ha perduto irremissibilmente, si puó chiamare in realta uomo perduto, perduta gente. Con le parole perduta gente il poeta allude sopra t tutto alla cosiddetta poenadamni, pena che consiste nella perdica di Dio come Sommo Bene, e alla quale debbon soggiacere i dannati. Questa prima terzina adunque indica, in vari modi, 1'eternita delle pene infernali, e il carattere delle pene stesse: eterno dolore, eterna perdita di Dio. E il poeta, quasi premunendosi contro 1'accusa ch'egli, senza sufficienti ragioni, chiami l'inferno luogo di eterno dolore, e che si possa riscontrare alcunchè di ingiusto nella verita che il peccato (devesi qui intendere il peccato mortale) sia punito con eterno tormento, il poeta, ripeto, spiega nella terzina successiva la Giustizia Divina: Giustizia mosse il mio alto fattore. II principale motivo per il quale Dio creö l'inferno è la Giustizia, ed è appunto questa la virtü divina che, per 1'esistenza dell'Inferno, meglio e piü chiaramente ci si mostra. Anche gli antichi considerano l'inferno come il luogo ove si apprendono a rispettare le leggi degli dei. Phlegyasque miserrimus omnes Admonet et magna testatur voce per umbras: Discite iustitiam moniti et non temnere divos. (Virgilio, Eneide VI, 618-620). Secondo un assioma teologico Dio ha creato tutte le cose per sè: omnia propter se operatur. Ciö significa che Dio, in tutte le opera ad extra, cerca la gloria sua e la sua glorificazione; e cosi le cerca pure nella creazione deU'Inferno, mediante la quale Egli volle farci conoscere la sua infinita giustizia. E Dante ci fa vedere come nella pena eterna non vi sia ngiustizia alcuna. Giacchè, come sarebbe mai ciö possibile se fu appunto la giustizia divina che mosse Dio alla creazione dell'Inferno? Ora, chièl'altofattore? Senza dubbio Dio, e precisamente la Divina Trinita: Fecemi la divina potestate, La somma sapienza, e il primo amore; poichè, secondo un altro principio teologico, le opera ad extra, le opere, cioè, che Dio creö airinfuori di sè, sono 1'effetto comune delle tre persone della Santissima Trinita: o p e r a ad extra sunt totius Trinitatis. Con le parole divina potestate Dante indica il Padre, come persona prima della Santissima Trinita, la cui caratteristica è 1'onnipotenza divina. Cosi laSommaSapienzaèla caratteristica della seconda persona, del Aóyos, generata da Dio realmente ed ab aeterno. II primoamore è l'amore che proviene dal Padre e dal Figliuolo e si chiama Spirito Santo. Importante è la spiegazione data a queste parole dalcelebre conferenziere di „Notre-Dame" di Parigi, padre H. D. Lacordaire, nella sua 72ma conferenza: „Le Dante a mis sur la porte de son Enfer cette fameuse inscription: „Par moi, 1'on va dans la cité de la plainte, Par moi, 1'on va dans 1'éternelle douleur, Par moi, 1'on va dans la nation perdue .... Vous qui entrez, laissez 1'espérance". Mais pourquoi laisser 1'espérance? Pourquoi en un lieu oü la bonté divine doitsetrouver.puisqu'elleestinséparabledeDieu, faut-il abdiquer toute heureuse perspective, si lointaine qu'elle soit? Le poète nous 1'explique dans un vers que je ne me rappelle jamais, sans un tressaillement d'admiration: „C'est 1'éternelle justice qui m'a fait et le premier amour". Si ce n'était que la justice qui eut creusé 1'abime, il y aurait du remède, mais c'est 1'amour aussi, le premier amour qui 1'a fait: voila ce qui öte toute espérance. Quand on est condamné par la justice, on peut recourir a 1'amour, mais quand on est condamné par 1'amour, a quoi recourra-t-on? Telestlesortdes damnés. L'amour qui a donné son sang pour eux, eet amour-la même, c'est celui qui les maudit. Eh quoi! un Dieu sera venu ici bas pour vous, il aura pris votre nature, parlé votre langue, touché votre main, guéri vos blessures, ressuscité vos morts, que dis-je? un Dieu se sera livré pour vous aux hens et aux injures de la trahison, il se sera laissé mettre nu sur une place pubüque, en tre des prostituees et des voleurs, attacher a un poteau, déchirer de verges, couronner d'épines, il sera mort enfin pour vous sur une croix! Et après cela, vous pensez qu'il vous sera permis de blasphémer et de rire, d'aller sans crainte aux noces de toutes vos voluptés! Oh, non, détrompez-vous! L'amour n'est pas un jeu; on n'est pas impunément aimépar un Dieu; on n'est pas impunément aimé jusqu'au gibet. Ce n'est pas la justice qui est sans misericorde, c'est l'amour. L'amour, nous 1'avons trop éprouvé, c'est la vie ou la mort: et s'il s'agit de l'amour d'un Dieu, c'est 1'éternelle vie ou 1'éternelle mort!" II conferenziere Lacordaire, adunque, con queste eloquenti parole vuol significare che Dante come motivo che mosse alla creazione dell'Inferno non cita soltanto di Dio 1'infinita giustizia, ma anche il suo infinito amore: l'inferno, secondo questo concetto, è creato tanto perchè Dio è infinitamente giusto, quanto perchè Egli è il primo amore. Nessuno certo avra nulla ad obiettare alla bellezza rettorica delle parole di Lacordaire. Perö, a ben riflettere, le sue spiegazioni non concordano perfettamente con i versi danteschi: Giustizia m o s s e il mio al to fattore: F e c e m i la divina potestate, La somma sapienza, e il primo amore. II poeta non conosce che un motivo: la giustizia divina. Ma siccome la creazione dell'Inferno è un opus ad extra, cosi tutta intera la Trinita, 1'onnipotenza divina del Padre, la somma sapienza del Figliuolo e il primo amore dello Spirito Santo, ha contribuito a quest'atto di creazione. E' bensï vero che il Poeta dice esser stato l'inferno creato dalla Potestate, dalla Sapienza e dall'Amore di Dio, ma con ció Dante vuole indicare le tre Persone della Santissima Trinita, e non, come dice Lacordaire, le virtü divine, una delle quali è la giustizia. Le parole, or dunque, di Lacordaire, sono piü una ampliflcazione rettorica dei significantissimi ed eloquenti versi di Dante, che un'esauriente spiegazione degli stessi. Dinanzi a me non fur cose create Se non eterne, ed io eterno duro: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate! Questi tre versi, formanti la terza parte della scritta sulla por ta dell'Inferno, dipingono meglio che non dicano, in brevi tocchi magistrali, il principio delle pene e la loro durata. Prima che l'inferno esistesse nessun essere creato esisteva, ma solo esseri eterni; sol questi precedettero quello. E qui Dante pare alluda alla dottrina di Aristotele e di alcuni altri filosofi medioevali, i quali sosterrebbero che fra le cose create sonvene pure delle eterne, le quali sono cioè create ab aeterno. Sarebbero questi gli esseri che Dio ha creato direttamente, senza, cioè, inter vento delle causae secundae, come la materia prima, i cieli, gli angeli e piü tardi anche 1'anima umana; 1'altra specie, invece, comprende tutte quelle cose che Dio creó non direttamente, ma indirettamente mediante le causae secundae.1) Dalla enumerazione invero di questi cosiddetti esseri eternamente esistiti e creati risulta perö che devesi ammettere una certa successivita di tempo nella loro creazione. Giacchè, secondo quei dotti, Dio creó innanzi ogni cosa la materia prima, dopo i cieü, gü angeli e piü tardi 1'anima umana. Questa e t e rnitè non devesi quindi mterpretare tanto restrittivamente, ein nessun caso gli esseri creati, neppur quelli della prima specie, possono considerarsi eterni, come è eterno Dio, il creatore. Ammesso un tale concetto potremo accettare la medesima suddivisione di esseri e parlare di cose create direttamente da Dio e di cose create con 1'intervento delle causae secundae. Dante, quindi, con le parole: ') Cfr. Summa Theologia. San Tommaso d'Aqulno. I parte, q.46-a.l, ove è detto: „Non est necessarium mundum semper esse. linde nee demonstratlveprobari po test. Nee rationes quas ad hoe Aristoteles inducit (lib. 8 Phys.), sunt demonstrativae simpliciter, sed secundum quid, scilicet adcontradicendum rationibus antiquorum ponentium mundum incipere secundum quosdam modos in veritate impossibiles". E piü oltre ad tertium. Dinanzi a me non f ur cose create Se non eterne, intende dichiarare (cosi spiegano alcuni commentatori) che l'inferno, il quale come è detto nella precedente terzina è creazione diretta di Dio, non fu preceduto nella sua esistenza da nessun altro essere creato, all 'infuori dei cosiddetti esseri eterni, vale a dire di quelli direttamente creati da Dio. Siccome, infatti, l'inferno presuppone 1'esistenza della materia prima, dei cieli e degli angeü, è evidente ed owio che tali esseri devono aver preceduto l'inferno stesso. Ma anche l'inferno appartiene a quelle cose che Dio direttamente creó e che sono quindi create eterne. Per conseguenza deducesi che prima che l'inferno esistesse, non esisteva nessun essere della seconda specie, ma solo esseri del primo gruppo, vale a dire esseri creati direttamente da Dio e i quali, di necessita, dovettero esistere prima dell'Inferno, appunto perchè l'inferno presuppone la loro esistenza. Da quanto sopra è esposto di leggeri senetrae che, secondo Dante, il suo Inferno non fu creato precipuamente per l'uomo, poichè, conformemente alla gia citata dottrina degli antichi, l'uomo fisico non appartiene al primo gruppo. L'Iriferao,dunque, è principalmente creato qual luogo di punizione degü angeli ribelli. Ciö è perfettamente in concordanza con le parole che Cristo dice nel Vangelo, relativamente al fuoco infernale: „Qui paratus est diabolo et angelis ejus". Nel concetto di Dante, quindi, l'inferno è, nel significato sovra enunciato, eterno nella sua origine. Ma è pure eterno nella sua durata: .... ed io eterno duro. Queste parole alludono specialmente alla eternita delle pene. Dicemmo giè piü sopra come la eternita delle pene infernali non sia una creazione dello spirito poetico di Dante, ma sibbene un concetto del credo universale cristiano su detta verita. E se ció risultava abbastanza chiaro dalle parole „eterno dolore" del verso secondo, in cui forse si sarebbe potuto intravedere un certo senso piü o meno figurato e iperbolico della parola „eterno", ora, con la esplicitaecategorica frase: „edio eterno duro" non v'ha piü adito al minimo dubbio. E perchè l'inferno eterno dura? Dante piü nón torna sul1'argomento. Tale verita era per 1' Alighieri cosi chiara ed owia che non stimö neppure opportuno parlarne piü oltre.Tutt'éd piü enuncia egli con brevi parole che 1'eternita dell'Inferno non è affatto in contrasto con la giustizia di Dio, ma anzi è un risultato, un effetto di una tale virtü divina. A maggior chiarimento, a completamento del nostro assuntocipiace esporre qui un argomento, il quale varra a spiegare nel modo piü limpido che la pena eterna non contrasta punto con la divina giustizia. Da pena eterna ê colpito solo colui che muore in peccato mortale, vale a dire, colui 1'anima del quale è macchiatadauno di quei gravi peccati che noi denominiamo peccati mortali. 11 peccato mortale è quindi una grave offesa fatta a Dio, poichè èun'infrazionedi qualche punto essenziale di unalegge da Dio direttamente o indirettamente prescritta. Onde valutare alla sua giusta gravitè una tale offesa, dobbiamo un po'vedere come essa venga interpretata quaggiü tra l'uomo sulla terra. Fra gli uomini una offesa è giudicata tanto maggiore quanto piü altolocato è 1'offeso e quanto meno lo sia 1'offensore. Tanto piü grave è dunque 1'offesa quanto piü grande è la differenza di autorité e di ceto sociale fra le due persone, colei che offende e colei che subisce 1'offesa. Ora, la differenza fra l'uomo che offende Dio, e Dio, dall'uomo offeso, è infinitamente grande. Ecco perchè 1'offesa fatta dall'uomo a Dio è inf initamente grande. San Tommaso d'Aquino, dal quale abbiamo tolta 1'argomentazione in parola, esprimesi in tali termini: „Peccatum mortale habet quandam infinitatem". Non che il peccato, come atto compiuto dall'uomo, sia in certo senso infinito, non potendosi da una creatura finita, mortale, come è l'uomo, commettere un'azione infinita; ma la cosa deve essere considerata „in aestimatione". 11 peccato mortale è infinito solo „in aestimatione", essendo stato compiuto da un essere flnito in danno di un essere infinito, e quindi la distanza tra offensore e offeso è infinitamente grande. Ora, la pena deve essere in concordanza colla gravita del1'offesa. Altrimenti viene a mancare qualsiasi rapporto tra reato e pena. Ecco perchè anche la pena per un peccato mortale deve essere, in certo modo, infinita. Ma l'uomo come essere finito, non eterno, non puö soggiacerea una pena eterna, infinita, a una pena almeno che sia infinita nella sua essenza. Sotto un unico punto di vista la pena puö essere infinita, e, cioè, nella sua durata, poichè l'uomo, dopo il giudizio e la resurrezione, come tale continua a sussistere eterno. Per le sovraddette ragioni è giusto ed equo, secondo il nostro concetto umano, che il peccato mortale tragga con sè una pena eterna, senza fine. Ed ora, dopo quanto abbiamo dianzi veduto, quanto chiare e quanto vere ci risuonano le tremende parole che chiudon la scritta: Lasciate ogni speranza voi ch'entrate! Ma perchè lasciare ogni speranza, perchè disperare di mai piü uscire da quel luogo di miserie e di pene? Perchè l'inferno è un luogo di pena che dura eterno, un luogo ove il dolore regna eterno, un luogo creato da Dio stesso, mosso dalla giustizia. E' questa Tunica conclusione che a noi s'impone, dopo quello che il poeta, nei versi precedenti, ciinsegna sulla natura, sul Creatore e suil'esistenza dell'Inferno. Giacchè, se è vero che l'inferno è creato dalla divina giustizia ad eterno castigo dei peccatori, è evidente che nessuna speranza consoli piü coloro che son cacciati in quel luogo di martirio. Neppur qui, or dunque, Dante fantastica: anche astraendo dalla questione del1'eternitè circa 1'origine dell'Inferno — ció che nessun teologo o filosofe cattolico potrebbe piü sostenere —«il poeta in questi versi mostrasi cosi cattolico di dottrina e di concetti, come solo un dotto medioevale potrebbe essere; o, come dice Busken Huet nelle sue „Fantasie letterarie": „Dante è cosi cattolico come una chiesa cattolica". E per quanto aspra e for te ci possa riuscire la verita, e insufficiënte la fantasia a darcene un'adeguata rappresentazione, nessuno perö, che conosca e capisca la dottrina cattolica racchiusa in questo passo, si sorprendera dinanzi a quel verso finale, universalmente noto, divenuto quasi proverbiale, e cosi commovente e tanto umano: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate 1 P. J. TER MAAT O. P., Theol. Lector NESSUN MAGGIOR DOLORE.... Pochi episodi dell'Inferno dantesco sono cosi noti come 1'incontro del Poeta con Francesca da Rimini. Nessuna meraviglia! Quei due spiriti volteggianti per l'„aer bruno" come colombi, il doloroso racconto dell'amore proibito, la lettura che i due insieme fanno del libro di Lancillotto e Ginevra, quella trasfusione della passione amorosa dal libro nel cuor dei due let tori, la semplicita della rappresentazione, la sincerita del sentimento, la fresca originalita e 1'audacia dell'espressione nel „disiato riso Esser baciato da cotanto amante", la forza suggestiva del sobrio: „Quel giorno piü non vi leggemmo avance", quell'ultimo verso scultoreo: „E caddi, come corpo morto cade" ... J Chi puó mai dimenticare tutto ció una volta letto e sentito? Ugualmente rinomanza conseguirono quei versi, con i quali Francesca inizia la dolorosa sua storia: Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Nella miseria. E ció sa '1 tuo Dottore. Con quella parola „Dottore" pare il poeta voglia alludere a Boezio. E invero, Dante dice nel Convivio che, nel „De Consolatione Philosophiae" del „romano senator", attinse conforto dopo la morte di Beatrice. In quell'opera classica leggonsi infatti le parole che profonda impressione dovettero certo esercitare sull'animo affranto dell'Alighieri: „Nam in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem". Giova qui forse notare che Boezio tolse probabilmente a sua volta questo pensiero a piü antichi autori. Leggiamo infatti le parole che Serse dice nei Persiani di Eschilo (versi 988—990): i vyya fioi 5f;r' dya%iov éxaqmv vitopifipyaittig, aXaar' aKaara arvyva itqóxccxu Xiymp. E piü tardi nella >,IphigeniaTaurica"diEuripide(versi 1121 — 1122): tö di (itt' iVTv%l«f xaxova&cu ÖpciTOÏe (ictQvt; aiwy, E' da supporre che conoscitori della letteratura classica altri passi, oltre i due da me sovra citati, potranno additare di tal genere. Ma per noi, che qui miriamo unicamente a Dante, è certo di maggior interesse ricercare e sapere se il grande italiano abbia potuto incontrare il pensiero delle parole: Nessun maggior dolore.... anche in autori posteriori a Boezio. Ed anzitutto possiamo menzionare Agostino, il quale, nell'inno DegaudiisParadisi, cosi paria dell'anima che anela a una vita migliore: Dum pressuris ac aerumnis Se gemit obnoxiam Quam amisit, cum dehquit, Contemplatur gloriam. La strofa chiudesi con due versi che rievocano quelli di Dante: Praesens malum auget boni Perditi memoriam. Altro esempio ci presenta il Roman de la Rose; nella prima parte, rielaborata da Guillaume de Lorris verso il 1230, 1'innamorato dice: Car ge suis è greignor meschief Por la joie que j'ai perdue, Que s oncques ne 1'éussi éue. Stimiamo pure utile al nostro assunto dire che un elemento del pensiero: Nessun maggior dolore...., vale a dire ilricordarsi, lo troviamo espresso in Dante, ma non in Boezio, quantunque, a ben riflettere, quel ricordarsi sia implicito nel contrasto fra 1'aver avuto e il non avere piü, fra passato e presente. E questo „ricordarsi" noi vediamo bensi in Eschilo, ma non in Euripide; bensï in Agostino, ma non in Guillaume de Lorris. Ora, data una tale presenza e assenza di questo elemento-pensiero, possiam noi trarne una deduzione e classificare in gruppi i summenzionati autori?Non credo. Puö darsi benissimo, infatti, che Dante, valendosi, mutandole, delle parole di Boezio, abbia inserito nel canto immortale quel „ricordarsi". E tanto piü v'ha ragione di addurre una tale supposizione, in quanto che noi un uguale svolgimento di cose incontriamo in un piü vecchio contemporaneo di Dante, nel poeta fiammingo, cioè, JacobvanMaerlant.Nel suogrosso volume di poesie Spieghel Historiael, rifacimento dello Speculum Historiale di Vincentius Bellovacensis, ci è dato di vedere un capitolo intitolato: Boetius Bloemen. Vincentius Bellovacensis tolse letteralmente il detto passo al De Consolatione Philosophiae. Maerlant perö lo traduce come segue: In mesfal ens niet so quaet, Alse dat een peinsende gaet: „Du waers salich hier te voren". (Nella miseria nulla è piü triste che pensare: „Una volta tu eri fehce"). Anche Maerlant dunque vi ha inserito il „ricordare". Quanto siamo venuti fin qui esponendo non deve in nessuna guisa essere interpretato come un tentativo di lanciare la benchè minima accusa di plagio a un grande poeta. Noi soltanto miriamo a un rispettoso esame dell'opera del poeta, a un accenno circa i pensieri e i sentimenti diffusi dalla letteratura mondiale e dalla viva parola di popoli: patrimonio questo di dominio pubblico, per cosi dire, rielaborato dai poeti a seconda dei loro bisogni, e che trova la sua via attraverso i tempi, ora per strade aperte ed ora per ascosi sentieri. Guidato da questo concetto, parmi non senza interesse di soffermarmi maggiormente sul pensiero che tantie tanto celebriautoriadoperarono. Pensiero che incontriamo, fra altri, in due scrittori del secoio XV, nello spagnuolo marchese di Santillana e nell'olandese nobile Dire Potter. 11 primo, ammiratore e imitatore di Dante, scrivenelsuo Infierno de los enamorados (No. 62). La mayor cuyta que aver puede ningun amador es membrarse del plazer en el tiempo de dolor. In Bloem der Deugden (Fiore delle virtü), scritto didattico in prosa di Potter, leggesi: „Ter werelt en mach, soe mij dunct, gheen meerder druc noch zwaerheit van melancolien wesen, dan in voerleden tijt rijc ende salich te wesen ende daernae in armoeden ende in onsahcheden ghedaelt"(Nonviè nel mondo, a parer mio, maggior dolore, nè maggior tristezza che d'essere stati in passato ricchi e felici, e d'esser poi caduti in miseria e poverta). Nei versi del Santillana 1'imitazione di Dante appare evidente, anche perchè lo spagnuolo limita il pensiero generale al dolore dell'innamorato. Che Potter abbia conosciuto la lingua itaüana non risulta in nessun luogo, pur avendo egli soggiornato qualche tempo a Roma. Ad ogni modo il suo rifacimento del pensiero che forma oggetto del presente breve studio fa piuttosto pensare a Boezio che al Divino Poeta d'Italia. Due autori spagnuoü del secoio XVI, Montemayor e Boscan, hanno alquanto contribuito alla soprawivenza di quel pensiero di Boezio e di Dante. Nella Diana di Montemayor (I, 7, p. 162), probabilmente del 1558 circa, leggiamo: „porque la memoria del bien perdido pocas vezes dexa de dar ocasion a estas (lagrimas)". Considerato che questa pastorale tratta segnatamente dell'amore, noi siamo in primo luogo trattia pensare all'influenza di Dante. Anche Boscan avra avuto presente i versi di Dante allorquando cosi incominciava uno dei suoi sonetti: Si en mitad del dolor tener memoria Del pasado placer es gran tormento. Eperquell'amor dei contrasti, che fu una caratteristica pure del Boscan, questo poeta completö la quartina con 1'aggiunta dei seguenti due versi: Asi tambien en el contentamiento Acordarse del mal pasado es gloria.1) ) Anche la gioia che ci suscita il ricordo dei dolori sofferti, è un pensiero che incontrasi nei classici eta Dante: cfr. Patin, Etudes sur lesTragiquesGrecs, II, 21 iLucrezio II, 1 segg. („Suave mari magno"); Inferno I, 22—4; Staring segue Lucrezio in alcuni versi del suo racconto: De twee bultenaars .. en zoo als gij mij ziet, zag ik ze vallen alle drie, èèn voor èèn, tusschen den vijfden en zesden dag. Toen begon ik, 73 Blind reeds, met de handen hen te betasten en twee dagen lang riep ik ze, nadat ze dood waren. En toen — meer dan de smart kon de honger'." 76 Wanneer hij dit gezegd had, pakte hij, met de oogen loensch opnieuw het bejammerlijke hoofd tusschen de tanden, die als van een hond, sterk waren op het been. 79 Wee Pisa! schande der volken van 't schoone land, waar het „si" klinkt, omdat uwe geburen in u te straffen traag zijn, 82 Laten Capraia en Gorgona zich loswoelen, en een dam in den Arno aan zijn monding maken, zoodat hij alle mensch in u verdrink! 85 Want al had graaf Ugolino den roep, u om het kasteel verraden te hebben, zoo moest gij toch zijn zonen op zulk een kruis niet slaan. 88 Onschuldig maakten de jonge jaren, nieuwe Thebe, Uguccione en Brigata en de andere twee, die 't gedicht hierboven noemt. A. H. J. VAN DELFT Pr. traduttore. PURGATORIO, CANTO XXX 1 Toen 't Zeven-sterrenbeeld der hoogste Ronde, •— Dat nimmer ondergang of opgang kende, Noch and'ren sluier droeg dan die der zonde, 4 En dat hier elks oog naar zijn plicht deed wenden, Naar 't laag're diè stande' aan het roer doet houden, Waardoor men 't schip de haven in zal zenden, — 7 Stil stond, geschiedde' 't, dat d'eerwaarde ouden ■— Voor den Griffioen en na dit aan getogen — T" rug naar de Kar als naar hun vrede schouwden. 10 En één begon — gezonde' als uit den Hoogen — „Veni, sponsa, de Libano!" te zingen Drie maal; toen werde' al d' and're' er toe bewogen. 13 En naar — als 't jongst Geschal ze' er toe zal dwingen De zaal'gen, elk snel uit hun graf gedreven, Met stem herkleed, „Hallélujah!" op dringen, 16 Zoo om de heii ge Kar werd aangeheven Door honderdtal: „ad vocem tanti venis", — Dienaars en boden van het eeuwig leven. 19 Zij riepen elk: „Benédictus qui venis!" ;—•, Wier bloemenworpe' er bove' en rondom winden. „Manibus o daté lilia plenis!" — 22 'k Zag vaak 't azuur in rozenrood verzwinden In 't Ooste' en kon dan, als 't begon te dagen, Het and're' in glans van zaal'ge klaarheid vinden 25 En 't zongelaat in neev'len, die 't vervagen, Wijl 't rijst, zoodat, daar zij het temp'ren konden, Het oog zijn aanblik langer kon verdragen; 28 Zoo in een wolk van bloeme' omhoog gezonden, Die er uit d' eng'lenhanden opwaarts slierde En die weer daalde' er binne' en in den ronde, 31 Verscheen mij Donna, die olijfkrans sierde Om sluier, blank, — van mantel, groen, omhangen, — Wier kleed haar, rood als felle vlam, omzwierde. 34 Mijn ziel, die 't reeds zoo'n tijd niet kon erlangen, Waar zij aanwezig was, haar aan te staren, Dat 'k bevend door bewond'ring bleef bevangen, — 37 Vóórdat de oogen wéér mij dede' ontwaren: — Kon door geheime kracht, door haar gedreven, De groote macht der oude liefde' ervaren. 40 Zoodra die hooge deugd den schok kon geven Aan d' oogen, die mij vroeger reeds doorschichtte, Voordat mijn jongenstijd verstreek van 't leven, 43 Wou 'k dat gevoel links uit mijn blik doen lichten, Waarmee 't kind naar zijn moeder toe zal snellen, Als 't bang is of als smart het tot haar richtte, 46 Toen 'k tot Virgiel zei: 'k Kan geen drachme tellen Van bloed zelfs, dat — niét bevend — 'k heb behouden. Door teekens zie 'k de oude vlam opwellen." — 49 Maar daar was geen Virgilius meer, waar 'k schouwde; Virgilius, beste Vader, dien 'k ontbeerde; Virgilius, wien 'k tot heil mij toe vertrouwde! 52 Wat als verhes de oude Moeder deerde, Was voor mijn wangen, die dauw kon verreinen, Niet waard, dat er door tranen 't zwart niet keerde. 55 „Ween — Dante —, daar Virgilius moest verdwijnen, Nog niet, ween nog niet; 't moet geen rede' U geven, Want weenen past U eerst om and're pijnen". — 58 Als vlootvoogd, die op voor- en achtersteven Gaat om het volk zijn dienst zich te zien wijden Op d' and're schepe' en 't naar zijn plicht doet streven, 61 Zag ik in 't wagendiep ter linker zijde, — Toen ik bij 't klinken van mijn naam mij wendde, Dien 'k schrijf hier, daar'k uit noodzaak 't niet kan mijden— 64 De Donna — die ik toch al onderkende In 't floers, dat haar als eng'lenhulde' ompraalde, — Haar blik me' aan genen kant der beek toezenden. 67 Hoewel de sluier, die van 't hoofd haar daalde. En dien ik door Minerva's loof zag kronen, Belette, dat ik gansch — wie 't was, ~ bepaalde, 70 Bleef zij in majesteit nog streng zich toonen En zij ging voort gelijk in die gesprekken, Waarin het felst woord eerst aan 't eind zal honen: 73 ,,'k Ben Beatrice; zie maar goed mijn trekken! Hoe hebt gij 't nad'ren van den Berg verkregen? Wist gij niet, dat tot heil deez' oorden strekken?" 76 Mijn blik is naar de klare bron gezegen, Maar toen 'k mij zelf zag, liet naar 't kruid 'k hem wijken; Zóó n schaamte voelde' ik mij op 't voorhoofd wegen. 79 Een zoon ziet moeders trots tot smaad hem prijken, Naar zij mij rees en van haar vrome woorden ■— Maar scherp — moest mij de smaak een bitt're blijken. 82 Toen: „In te, Domine, speravi," — hoorde Ik, wijl zij zweeg, als zang der eng'lenscharen Maar slechts tot „pedes meos" hun accoorden. 85 Naar sneeuw stuift, daalt langs levende pilaren En op Italië's rug verstard blijft steken Door winden uit Slavonië aan gevaren, 88 Dan smeltend in zich zelve gaat verweeken, Als gloed aanzwoelt der schaduwlooze gronden En vuur schijnt, dat een kaars gansch weg doet leeken, 91 Werd 'k zonder tranen, zuchten nog gevonden, Vóór zorg van hen, wier klanken altijd stroomen Na die der harmonie van d'eeuw'ge Ronden, 94 Maar toen 'k uit zoete tonen had vernomen Hun meelij, méér dan 't woord dit zou vermogen: „Donna, waarom doet gij zoozéér hem schromen?" — 97 Is 't ijs, dat 't hart benauwde, weg getogen In zuchte' en trane' en uit mijn borst gedreven — Krampachtig hijgend — door mijn mond en oogen. 100 Zij <*<» aan den zelfden kant der Kar gebleven —, Wijl zij zich tot de goede wezens wendde, Heeft toen aldus haar woorden aan geheven: 103 „Gij blijft Uw blik naar 't eeuwig Licht heen zenden, Dat nacht noch droom één schrede' U doet ontwijken, Die 't tijd'lijke' op zijn wegen kan volenden; 106 Ik wil dus met mijn woorden méér bereiken, Dat hij 't begrijpt, van wien ginds klachten zwellen, Dat smart en schuld hier nu naar één maat blijken. 109 Niet slechts doordat de groote Rad'ren snellen Rondom, die naar vast doel voere' alle zaden, Alwaar de sterren dezen vergezellen: 112 Door mildheid ook der godd'lijke Genade Tot rege', uit nevelen zóó hoog gedreven, Dat óns oog zóó ver niet meer komt te stade, 115 Was deze zóó begaafd in 't nieuwe leven, Dat hij — waar alle goeds van was te wachten — Er wonderbaar bewijzen van kon geven. 118 Maar slechter, woester is de grond te achten Door 't booze zaad, en dien men niet bebouwde, Naar hij méér heeft van goede, vruchtb're krachten. 121 Kort steunde 'm, dat hij mijn gelaat aanschouwde, Daar 'k in mijn meisjes-oogen hem het staren, En 't deed met mij hem goede richting houden. 124 Maar 'k kon den drempel niet nabij ontwaren Des tweeden leeftijds, bij mijn ruil van leven, Toen hij zich and'ren gaf en mij liet varen. 127 Toen 'k uit het vleesch tot geest mij had verheven En 't mij meer schoonheid, deugdzaamheid bereidde Is minder liefde' en eerbied hem verbleven. 130 En hij begon langs leugenweg te schrijden En volgde valsche beelden van het goede, Die altijd trouw aan hun beloften mijden. 133 't Hielp niets, dat 'k mijn gedachte' 'iri toe deed spoeden, Waarmee 'k hem riep in droom of 't anders trachtte, Want weinig scheen 't hem waard, niet op zijn hoede. 136 Hij zonk zóó diep, dat niets meer goed was te' achten Tot zijn behoud als hulp, — naar 'k dacht — bevonden, Dan hen te zien, die als verdoemden smachten. 139 'k Bezocht dus d' ingang van der dooden Ronden En wie hem voerde' omhoog naar deze streken, Heb ik mijn beden klagend toegezonden. 142 't Waar 'wis het hoog besluit van God verbreken, Als men ging door Lethé en er zou smaken Zoo'n dronk, terwijl betaling er bleef steken 145 Met het berouw en dan de trane' ontbraken." — J. K. RENSBURG traduttore. 14 PARADISO, CANTO XXXIII 1 „ Maagd, Moeder, Dochter van uwen Zoon; deemoedige en verhoogde meer dan eenig ander schepsel, eindpaal gevest door den Eeuwigen Raad, 4 gij zijt degene, die de menschelijke natuur aldus hebt veredeld dat haar Maker het niet te laag achtte zich tot haar maaksel te maken. 7 In uwen buik ontbrandde de liefde, door welker hitte in den eeuwigen vrede aldus deze bloem is ontsproten. 10 Hier zijt gij de middagfakkel (Zon) der barmhartigheid; en omlaag, onder de stervelingen, zijt gij de levende bron der hoop. 13 Vrouwe, gij zijt zóó groot en vermoogt zóó veel, dat wie genade verlangt en niet tot u de toevlucht neemt, diens begeerte wil vliegen zonder vleugelen. 16 Uwe welwillendheid schiet echter niet toe alleen tot wie vraagt; maar vele malen snelt zij het vragen vrijelijk vooruit. 19 In u is medelijden, in u vroomheid, in u heerlijkheid, in u vereenigt zich alle goedheid, die in een sterveling is. 22 Deze, die van den ondersten plas des Heelals tot hier toe heeft gezien de geestelijke levens één voor één, 25 smeekt tot u, bij genade, om zóóveel deugd, dat hij met de oogen nog hooger kunne oprijzen tot het eindelijk heil. 28 En ik, die nooit voor mijn eigen zien meer brandde dan ik het doe voor het zijne, richt al mijne beden tot u en ik bid dat zij niet te kort schieten, 31 opdat gij hem elke wolk van zijne sterfelijkheid door uwe gebeden afneemt, zoodat het hoogst genot zich hem ontvouwe. 34 Nog bid ik u, Koningin, die kunt dat wat gij wilt, dat gij, na zoo groot een zien, hem zijne vermogens heel behoudt. 37 Moge uwe hoede (in D's nu volgend leven) de menschelijke aandriften verwinnen; zie hoe Beatrice en zoo vele zaligen voor mijne gebeden tot u de handen vouwen." 40 Deoogen, door God bemind en vereerd, op den biddende gevest, bewezen mij hoe welgevallig de innige gebeden zijn. 43 Vandaar richtten zij zich tot het eeuwige licht, tot hetwelk niet geloofd kan worden dat door eenig sterveling zoo helder een blik kan worden toegezonden. 46 En ik die het eind van al mijne begeerten naderde, deed, zooals ik moest, den brand der begeerte in mij eindigen. 49 Bernardus wenkte mij, en glimlachte, dat ik omhoog zoude zien; maar ik was reeds door mij zeiven zóó als hij wilde: 52 daar mijn gezicht, meer en meer louter wordende, binnenging door den straal van het hooge licht, dat uit zich zelf waar is. 55 Van hier-aan was mijn zien grooter dan ons spreken, dat voor zulk een gezicht onderdoet; en de heuchenis geeft zich gewonnen aan zoo groot een overmacht. 58 Gelijk degene is die droomende ziet, en bij wien na den droom de indruk der aandoening blijft, en het overige niet in den geest terugkomt, 61 zoodanig ben ik, daar bijkans het gansche gezicht van mij week, en toch de zoetheid in het hart mij drupt, welke daaruit geboren werd. 64 Aldus gaat de sneeuw voor de zon haar vormen kwijt, zoo ging voor den wind de spreuk der Sybille in de wufte bladeren te loor. 67 O hoogste licht, dat zóó hoog oprijst boven het menschelijk begrip, geef aan mijnen geest wederom een weinig te leen van dat wat daar verscheen; 70 en maak mijne tong zóó vermogend, dat ze slechts een vonkjen van uwe glorie kunne achterlaten aan de komende geslachten: 73 daar, door maar even terug te komen tot mijne heuchenis, en, door een weinig na te klinken in deze verzen, te. meer zal worden begrepen van uwe victorie. 76 Ik geloof, door den flits, dien ik doorstond, van den levenden straal, dat ik verbijsterd ware, als mijne oogen van hem waren afgewend. 79 En mij heugt, dat ik daardoor meer moed had het zoo lang uit te houden doordat ik mijnen blik vereenigde met de eeuwige Goedheid. 82 O overvloedige genade, waardoor ik het bestond zóó lang den blik te vesten in het eeuwig licht, dat ik mijn gezichtsvermogen daarin verbruikte! 85 In zijne diepte zag ik dat drievoudig vereenigd is, met liefde samen in éénen bundel gebonden, datgene wat door het heelal zich verspreidt (eig. in vieren zich verdeelt): 88 substantie (zelfstandigheid) en accidenten (bijkomstigheden) en hunne gedragingen, die allen aaneen gesmeed derwijze, dat dat, waarvan ik spreek, is één enkelvoudig licht. 91 Den algemeenen vorm van dien knoop geloof ik dat ik zag, omdat ik, wanneer ik dit zeg, te milder gevoel dat ik geniet. 94 Een enkel oogenblik alleen (sedert doorleefd) is voor mij grooter vergetelheid dan vijf en twintig eeuwen voor de onderneming welke Neptunus deed verwonderd zijn over de schaduw der Argo. 97 Aldus schouwde mijn geest, gansch daaraan hangende, onbewegelijk en aandachtig, en werd al meer en meer in het schouwen ontbrand van begeerte. 100 Bij dat licht wordt men zóódanig, dat het onmogelijk is dat men goedschiks daarvan zich afwendt tot eenigen anderen aanblik; 103 omdat al het goed, dat is voorwerp van het begeeren, zich daarin versaamt, en daar buiten gebrekkig is dat wat hier volmaakt is. 106 Alsnu zal mijne sprake, ook om wat ik mij herinner, korter zijn dan die van een kindje, dat nog de tong laaft aan de moederborst, 109 niet omdat er meer dan één eenvoudig voorkomen geweest ware in het levend licht, waarop ik schouwde, dat altijd zóódanig is als het te voren was; 112 maar door het gezicht, dat in mij, al schouwende, krachten won, drong ééne éénige verschijning, terwijl ik veranderde, tot mij door. 115 In den diepen en klaren ondergrond van het hooge licht verschenen mij drie kringen van drie kleuren en van éénen omvang; 118 En de Één (de Zoon) scheen van den Ander, als Iris van Iris.deafkaatsing.en de derde(de Heilige Geest) scheen een vuur, dat van den Eenen als van den Anderen gelijkelijk uitstraalt. 121 O hoe gebrekkig en hoe zwak is mijn zeggen voor mijne voorstelling! en déze is, bij wat ik zag, zóó gering dat weinig te zeggen er niet voor volstaat. 124 O eeuwig licht, dat alleen op u zeiven rust, alleen u zeiven begrijpt (als Vader) en door u-zelven begrepen en u zeiven begrijpende (als Zoon), u zeiven bemint en toelacht (als Heilige Geest)! 127 Die kring (de Zoon), die aldus scheen voortgebracht door U, als weerkaatst licht, door mijne oogen wat langer bezien, 130 scheen mij binnen-in zich zeiven, in zijne eigene kleur, beschilderd met onze beeldtenis, waarom mijn gezicht zich gansch in hem nederliet. 133 Gelijk de meetkunstenaar is, die zich gansch en al afmat om den cirkel te meten en maarniet, hoe hij peinst, dat beginsel hervindt, dat hij van noode heeft; 136 zoodanig was ik in dien nieuwen aanblik: zien wilde ik hoe dat beeld voegde in den cirkel, en hoe het juist daarin (in den cirkel des Zoons) zijne plaats vindt; 139 maar mijne eigene vleugelen waren daartoe niet voldoende; en ik hadde 't niet gezien, zoo niet mijn geest ware getroffen door een bliksem, in welken hem zijn verlangen gewerd. 142 Der hooge verschijning schoot hier het kunnen te kort; maar reeds werd mijn begeerte en mijn willen, zooals een rad, dat gelijkelijk wordt voortbewogen, gewenteld door 145 de Liefde, die de Zon en de andere sterren beweegt. Dott. H. J. BOEKEN traduttore. DANTE IN OLANDA STUDIO BIBLIOGRAFICO E'notevole che in Olanda solo nel secoio XIX si sia cominciato a tradurre e a studiare rAlighieri. Nei secoli XVII e XVIII nulla, o quasi, incontriamo in fatto di traduzioni delle opere dantesche. A giustificazione di ciö non si puö certo addurre 1'ignoranza nel secoio XVII della lingua italiana nei Paesi Bassi. Numerosi scrittori del nostro „Secoio d oro" — Pieter Corneliszn. Hooft, Jacob Catz, Joost van den Vondel, Constantijn Huygens, Tesselschade, per tacere di altri meno noti — conoscevano la lingua italiana; tuttipresentavano nelle loro opere imitazioni italiane. Hooft, anzi, soggiorno a lungo in Italia, a Firenze, e ci lasciö una storia delle varie vicende della casa de'Medici. Ma pare che egli, come ebbe ad osservare Potgieter, abbagliato quasi dallo splendore mediceo, non avesse piü occhi per vedere quant'altro contribui a dar rinomanza mondiale a Firenze, non facendopersinoneppur parola di colui, la cui vita e le cui opere sono inseparabili dalla grandezza della citta. Ben di rado incontrasi, in scritti di quei tempi, il nome di Dante. E quale ne puö essere stata la cagione? Era forse il Divino Poeta troppo teologico, troppo cattolico per quella parte rigorosamente calvinistica del popoio olandese? Ma Tesselschade allora, rimasta fedele alla religione degli avi e che porgeva la mano agü eroi del Tasso! E Joost van den Vondel che, dopo un lungo periodo di traviamento, fece ritorno, profondamente pentito, al grembo della santa madre chiesa. La vera cagione, parmi, era la seguente: Dante non era il poeta per gli olandesi di quel tempo, fossero dessi cattolici o protestanti. La storia del medioevo, con tutto il suo grandioso e sublime, durante due secoü circa perdette tutta la sua impor- tanza, tutta la sua attrazione; solo piü tardi il Romanticismo la rimetteva in tutto il suo primitivo onore. Ancora nel 1835, uno dei piü grandi scrittori olandesi, Everhardus Johannes Potgieter, in „De Muzen" (Le Muse), deplorava il poco interessamento in Olanda per 1'Italia e per la letteratura italiana. In detto articolo (pagg. 60-61) tentava egli di destare un tale interessamento, e spetta senza dubbio a lui precipuamente il merito se vedemmo di poi allargarsi via via sempre piü lo studio dell'italiano nel nostro paese. Nel 1837 il Potgieter pubbücö in „De Gids" un saggio di traduzione dantesca, il primo che sia apparso in Olanda nel secoio XIX. La traduzione si riferiva a un passo ben noto della Divina Commedia, 1'ultima parte, cioè, del canto V dell'Inferno, 1'episodio di „Francesca da Rimini". Certo tale traduzione non è tutta ugualmente fedele e presenta qua e la evidenti manchevolezze, ma non devesi perö dimenticare che allora Potgieter contava appena trent'anni, e che solo venticinque anni piü tardi ci dava quel suo incomparabile poema „Florence", composto in occasione del viaggio a Firenze nel 1865 per le f este commemorative dantesche. A questo saggio di traduzione del Potgieter seguirono poi, nel 1839, quello di J. J. A. Goeverneur „Ugolino" (in „De Gids" del 1839, pagg. 434-436) canti XXXII e XXXIII delrinferno, e nel 1846 una traduzione del canto I dell'Inferno di J. J. L. ten Kate (in „Algemeen Letterlievend Maandschrift" del 1846, pagg. 467-472). Nel 1863 si ebbe finalmentela prima traduzione olandese dell'intero poema dantesco, seguita ben presto da numerose altre. Possa la rassegna cronologica bibliografica che segue e che comprende tutte le traduzioni dantesche apparse in Olanda, e tutti gli studi pubblicati intorno al Divino Poeta e alle sue opere, testimoniare deü'ammirazione e deH'interessamento sempre crescenti in Olanda per 1'„Altissimo Poeta".') ') Va da sè che le traduzioni sud-neerlandesi non sono comprese nella presente rassegna bibliografica. Cosi, ad es.: „Het Goddelijk Spel van Dante Alighieri" di P. B. Haghebaert, tre parti, Lovanio 1900 j come pure gli articoli: di P. B. Haghebaert „Het Goddelijk Spel van Dante Alighieri" in „De Dietsche Warande" 1900,1, pagg. 438—455 e 553—572; di J. Persyn .Iets over Dante" in „DeDietsche Warande" 1919, pagg. 848—851; di A. Fierens, „1'Altissimo Poeta" in „Vlaamsche Arbeid" 1914, pagg. 235—238. h TRADUZIONI INTEGRALIE PARZIALI DELLA DIVINA COMMEDIA E. J. Potgieter, Francesca da Rimini (Inferno: V). De Gids 1837, 123-124. J. J. A. Goeverneur, Ugolino (Inferno: XXXII e XXXIII). De Gids 1839, 434-436. J J. L. ten Kate, De Hel van Dante, le zang (Inferno: I). Algemeen Letterlievend Maandschrift 1846, 467-472. Vertaling van de moeilijke plaats uit II Purgatorio, XXXII, De Navorscher 1853, 194 e 1854, 172. [100-161. Divina Comedia. Metrische vertaling, voorzien van ophelderingen en afbeeldingen door A. S. Kok. 3 dln. Haarlem 1863—'64. 8°. — Met portret van Dante. I. De Hel. II. De Louteringsberg. III. Het Paradijs. Dante Alighieri, zijn tijd en zijn werken. De Komedie. In dichtmaat overgebracht door J.C.Hacke van Mijnden.1) De oorspronkelijke tekst en vertaling naast elkaar gedrukt. Haarlem 1867—73. 3 dln. f°. Met platen van G. Doré en portret van Dante. Niet in den handel (fuori commercio). De goddelijke Komedie. De Hel. Met schets van den inhoud, verklaring en aanteekeningen door U.W.Thoden vanVelzen. Naar het origineel bewerkt. Leeuwarden 1870. 8°. H. J. A. M. Schaepman, De laatste zangen van Dante's Paradiso. De Wachter 1871, II, 150-168. Francesca da Rimini's belijdenis. Naar Dante. Met plaat naar Aurora 1873, 264. [Decaisne (Inferno: V). ') II Dott. Hacke van Mijnden dimorö per molti anni in Italia, ove ebbe agio di approfondirsi nello studio della lingua e della letteratura italiana, e di conoscere cospicui personaggi, fra altri, un amico di Garibaldi, G. Aug. Vecchj, il cui diario su Caprera(G. Aug. Vecch), Garibaldi e Caprera.Napoli 1862) egli, Van Mijnden, tradusse in francese col titolo di: Garibaldi et Caprera, deux journaux traduits du manuscrit italien, 1862, e in olandese. DalTopera orlginale del Vecchj il nostro J. J. L. ten Kate tradusse „Het lied van Garibaldi" (in, Aurora" 1864). _ , Del Dott. Hacke scrisse una biografia il genero suo. G. van Tienhoven, biografia che venne voltata in italiano dal prof. Antonioli, col titolo: „Un Dantista olandese", Cenni biografici sul dottore G. C Hacke van Mijnden, Firenze, 1873. De Hel. In de dichtmaat van 't oorspronkelijke vertaald door J. J. L. ten Kate. Met pi. van G. Doré. 1 dr. Leiden 1876-1877. f°— Nieuwe uitgave 1888.') De goddelijke Komedie. In Nederlandsche terzinen vertaald, met verklaringen en geschiedkundige aanteekeningen nopens den dichter door Joan Bohl. Niet in den handel. Eerste lied: De Hel. Amsterdam 1876. Met portret. 8°. Tweede lied: Het Vagevuur. Amsterdam 1880. 8°. Derde lied: Het Paradijs. Amsterdam 1884. 8°. Apparso per la prima volta in „De Wachter" 1874, 1875, 1879, 1883 e 1884. F. M. Lurasco, Francesca da Rimini (Inferno: V). F. M. Lurasco, Ugolino (Inferno: XXXIII). Bloemen uit den Italiaanschen lusthof. Stukken van Italiaansche dichters op 't origineel metrum in het Hollandsen vertaald. Amsterdam 1882. 8°. De goddelijke Komedie van Dante Alighieri. Vertaald door J. K. Rensburg. Voorzien van verklarende noten en een levensbeschrijving van den dichter. Met platen van G. Doré. 3 dln. Amsterdam 1906—1908. 4°. I. De Hel. Met portret en pl. 1906. II. De Louteringsberg. Met pl. en 2 kaarten 1907. III. Het Paradijs. Met pl. en 1 kaart 1908. De Hel, uit het Italiaansch vertaald door M. L. Lfoman]. Bussum 1908. 8°. Niet in den handel (fuori commercio). De Hel. In proza overgebracht en met een inleiding voorzien door H. J. Boeken. Amsterdam 1907. — 2e dr. .1909. 8°. Apparso per la prima volta in „De Nieuwe Gids" 1898 e 1899. De Louteringsberg. In proza overgebracht en met inleidingen aanteekeningen voorzien door H. J. Boeken. Amsterdam 1909.8°. Apparso per la prima volta in parte in „De Nieuwe Gids" 1899/1900 (canti I-VIII) e inpartein„DeXXste Eeuw" 1904, 1905,1907 e 1908. ') Nelle opere poetiche di Ten Kate, 1872, comparvero giè tradotti i primi dieci canti. Het Paradijs. In proza overgebracht en met inleiding en aanteekeningen voorzien door H. J. Boeken. Amsterdam 1900.8°. T. D. Bierens de Haan, Purgatorio XXVIII, 1-70. Onze Eeuw 1913, II, 282-284. E. B. Koster, Francesca e Paolo (Inferno V, 73-142). Verzamelde gedichten 1917, 409-411. E.B. Koster, Purgatorio XXXI: „Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi". Onze Eeuw 1918,1, 116. A. J. H. van Delft, De Hel (Dante-Verklaring, dl. II). Bussum 1920. 8°. A. ]. H. van Delft, Vagevuur (Dante-Verklaring, dl. III). Bussum 1920. 8°. A. J. H. van Delft, De Hemel (Dante-Verklaring, dl. IV). Bussum 1921. 8°. II. TRADUZIONI INTEGRALIE PARZIALI DELLA VITA NUOVA. P. H. de Cflercq], Drie sonnetten uit de Vita Nuova. Francesca da Rimini en andere gedichten; uit het Ital. vertaald door P. H. de C. Rotterdam 1875. 8°. A. S. Kok, XII sonnetten uit Dante's Vita Nuova. Onze Eeuw 1907, IV, 77-102. E. B. Koster, Sonnetten uit Dante's Vita Nuova. Groot Nederland 1909, II, 725-728. Uit Dante's Vita Nuova: „Negli occhi porta la mia donna amore". Vertaling door U. E.V. Onze Eeuw 1909, III, 469. Het Nieuwe Leven. Uit het Italiaansch vertaald door Nico van Suchtelen. Amsterdam 1915. 8°. A. Verwey, Twee sonnetten uit (Dante's) Vita Nuova. De Beweging 1917,1, 191-192. A. J. H. van Delft, Nieuw leven (Dante-Verklaring, dl. I). Bussum 1920. 8°. III. STUDI E POESIE SU DANTE. ARTICOLI SU DANTE E LE SUE OPERE Over Dante Alighieri en zijne goddelijke comedie. Museum (van M. Siegenbeek) II, 52-130. Over Dante's dichtstuk: De Hel betiteld, door v. G. Euphonia 1824, III, No's: 35-37. Nog een woord over Dante. Euphonia 1824, IV, No's: 48-52. J. P. van Walree, Over de verdiensten van Dante Alighieri, in betrekking tot zijnen tijd. s Magazijn voor Wetenschappen, Kunsten en Letteren 1825, 87-118. Over Dante's Divina Commedia. Het Athenaeum 1836, 313-318. J. H. Gunning Jr., Dante Alighieri. Vaderlandsche Letteroefeningen 1855, II, 313-332. De vier Italiaansche Puikdichters. Het Leeskabinet 1856, IV, 108-114. (Tolto dall' opera di H. A. Manitius: Grammatisch-practische leerwijze der Italiaansche taal. Amsterdam 1853. In detta opera leggesi: „Proeven van Italiaansche poesie" (Saggi di poesia italiana) tolti da Dante, Petrarca, Tassoe Ariosto. Tali saggi sono preceduti da cenni biografici, che sono stati inseriti nell' articolo sovra citato). A. S. Kok, Dante Alighieri. De Kunstkronijk 1863, IV, No's: 7, 13, 17, 26, 37, 43, 49. (Colla guida di: 1 ° Dante Alighieri's lyrische Gedichte und poëtischer Briefwechsel. Text, Uebersetzung und Erklarung von C. Kraft. Regensburg 1859. 2° Dino Compagni, Etude historique et littéraire sur 1'époque de Dante, par K. Hillebrand. Paris 1862. 3° Opere minori di Dante Alighieri, annotate ed illu- strate da P. Fraticelli. Firenze s. a.) Een vraagteeken in Dante's Hel, door H. J. V. De Nederlandsche Spectator 1864, XXIII, 180. (Ivi spiegasi come Orlandini, per chiarire la difficolta del passo che nel canto II dell'Inferno comincia con le parole: „Tu dici che di Silvio..." ecc, dopo Pietro pone un punto interrogativo. L'articolo è tolto dal „Giornale del Centenario di Dante Alighieri", edito a Firenze in occasione della celebrazione delle feste commemorative del Sommo Poeta (1865). Het eeuwfeest van Dante, door H. J. V. DeNederlandsche Spectator 1864, XXXVIII, 300-301. (Da la materia contenuta nel „Giornale del Centenario di Dante Alighieri", edito a Firenze). A. S. Kok, Dante en zijne Divina Commedia. Vaderlandsche Letteroefeningen 1866, I, 223-255. (Articolo scritto a proposito dello studio: Barlow, Critical, historical and philosophical contributions to the study of the Divina Commedia. London n.y.). E. J. Potgieter, Florence, den XlVden Mei 1265—1865. Aan Cd. Busken Huet. In „E. J. Potgieter, Poëzy" 1868,1, 193-438. T. A. Levy, Dante's staatsregtelijke theorie. De Tijdspiegel 1870, II, 109-138. (Considerazioni intorno alle teorie politiche di Dante sulla guida del „De Monarchia"). G. Th. F. Groshans, Dante en de Divina Commedia. Amsterdam 1867. 8°. J. H. Gunning Jr., Dante Alighieri. Amsterdam 1870. 8°. A. S. Kok, Dante en de samenzwering tegen Florence. Dramatische karakterschets. De Gids 1870, IV, 407-426. T. J. L. ten Kate, De profecy van Dante. 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(Furono seguiti principalmente i criteri contenuti nella „Letteratura Italiana" dell'Abate Giovammaria Carlo Denina). F. ter Horst, Hel, vagevuur en hemel. De Wachter 1877, 298-305. (Dalla „Storia del Cristianesimo latino", XTV, 2, del Milman). A. van Heemwaal, De Komedie. De Wachter 1877, 388-392. (Trattasi delle opere che possono essere servite a Dante per la sua Commedia). De brief van den balling. De Wachter 1877, 393-396. (Tratta dell'epistola che Dante scrisse in risposta all'invito fattoglidi far ritorno, sotto certe condizioni, a Firenze). C. F. J. van Niekerken, Streckfuss over Dante. De Wachter 1878, 38-83. Thomas Carlyle, De Heros als dichter. De Wachter 1878, 118-136. (Su la vita e le opere di Dante). H. C. M. van Westerloo, Macauly over Dante. De Wachter 1878,192-205. Thomas Babington Macauly, Dante en Milton. De Wachter 1878, 238-242. K, Witte, Het jaarboek der Duitsche Dante-Vereeniging. De Wachter 1878, 280-312. W. N. Jansen, Lammenais over Dante. 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M. van Westerloo, Nieuwe dagteekeningen in Dante's leven van K. Witte. De Wachter 1880, 235-259. H. de Bruin, Alberico's visioen. De Wachter 1880, 318-321. H. de Bruin, De oude en de nieuwe wereld. De Wachter 1881, 41-54. (Da, fra altro, giudizïdi dotti austriaci, italiani, americani e belgi su traduzioni olandesi di Dante). C. F. J. van Niekerken, „Was Dante van adel" door Prof. K. Witte. De Wachter 1881, 89-121. W. N. Jansen, Het Dantehuis. De Wachter 1881, 181. K. Witte, Dante in Duitschland. De Wachter 1881, 334-344. A. S. Kok, Uitgaven en vertalingen van Dante's Divina Commedia. Een bijdrage tot de Dante-litteratuur in Europa. De Portefeuille 1881/82, 397-399, 405-408, 413-416. J. Bohl, Dante's dageraad. De Wachter 1885, 85-100. J. Bohl, Beatrix. De Wachter 1885,285-306. J. Bohl, Dante's avond. De Wachter 1885, 313-339. P. F. Th. van Hoogstraten, Dante I, II, III. Onze Wachter 1884, II, 270-293; 1885, 89-122 e 236-257. (Articolo in due parti e concernente: 1°. Die göttliche Komödie des Dante Alighieri, nach ihrem wesentlichem Inhak und Charakter dargestellt von Dr. Franz Hettinger. 2°. Dante Alighieri, De goddelijke Komedie in Ned. terzinen vertaald met verklaringen en aanteekeningen nopens den dichter door Mr. Joan Bohl. La chiusa di questo articolo trovasi in „De Katholiek", parte 89). T. Bohl, Dante's betrekking tot Homerus. De Gids 1886, III, 472-491. ]. Bohl, S. Maria's portret. De Wetenschappelijke Nederlander 1886, IX, 139-143. (Sulle somighanze di Gesü e Maria a proposito di un passo della Divina Commedia, Paradiso XXXII, 91 -93). T. N. Brouwers, Dante en Paus Leo XIII. DeWetenschappelijkeNederlander 1887.VII, 100-106. Dante Alighieri. Vreemd en Eigen 1888, II, 200-208. A. S. Kok, Dante's Beatrice. De Gids 1894, II, 143-162. (A proposito di: 1° G. A. Scartazzini, Dante-Handbuch. Einftihrung in das Studium des Lebens und der Schriften Dante Alighieri's. Lipsia 1892. 2°. Dante Alighieri, La Divina Commedia. Riveduta nel testo e commentata da G. A. Scartazzini. 4 voll. Lipsia s.a. 3°. Sonderausgabe Band IV: Prolegomeni della Divina Commedia. Lipsia s.a.). A. S. Kok. Dante's Divina Commedia. Nederland 1894, III, 75-98. A. S. Kok, Dante Alighieri. Zijn oudste en jongste biograaf. Het Nederlandsen Museum 1894, 241-270. H. J. Boeken, Dante. Goden en Menschen 1895, 64. A. S. Kok, Scartazzini's nieuwe uitgave van de Divina Commedia (1895). De Nederlandsche Spectator 1895, LI, 415-416. R. K. Kuipers, Dante als denker. De Tijdspiegel 1896,1, 394-422 e II, 28-51. H. Roland Holst, Maatschappelijke oorzaken van middeneeuwsche en moderne mystiek. Mystiek der onderdrukte en der heerschende klassen. St. Franciscus en Dante. De Nieuwe Tijd 1897/98, 332-337. Dante en de heraldiek, door Jac. A. De Navorscher 1899, 403-405. J. D. Bierens de Haan, Dante op den Louteringsberg. Onze Eeuw 1902, II, 633-664. J. D. Bierens de Haan, Dante in het Paradijs. Onze Eeuw 1903,1, 107-133. A. S. 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BYVANCK Dante e Cimabue . . . . . p. 68 11. Dott. G. J. HOOGEWERFF. L'arte intorno al trecento . p. 79 IV. L'AMBIENTE DEL POETA 12. Dott. K. H. E. DE JONG. De Danteo ac Lucano ... p. 87 13. Prof. Dott. A.G. VAN HAMEL. La visione vivente di Dante ♦ . . d 97 14. Prof. Dott. FERD. SASSEN Pr.. I» filosofia ai tempi di Dantc p. 109 V. LE OPERE DI DANTE 15. Dott. nob. NICO VAN SUCHTELEN, Introduzionc alla „Vita Nuova" p. 119 16. Prof. Dott. IS. VAN DIJK, II misticismo nel dolce stil nuovo della „Vita Nova" p. 131 17. Dott. J. D. BIERENS DE HAAN, Ispirazione amorosa . p. 140 VI. LA DIVINA COMMEDIA 18. P. J. TER MAAT O. P., Inferno III, 1-9, Commento . . p. 148 19. Prof. Dott. G. KALFF, Nessun maggior dolore p. 158 20. M. A. P. C. POELHEKKE, Francesca da Rimini come materia drammatica p. 164 21. Prof. Dott. H. OORT, II paradiso t^tfestre nella Divina Commedia P- 173 22. Dott. H.J. BOEKEN, Introduzione al Paradiso di Dante . p. 181 23. CAREL SCHARTEN, Dante e Petrarca a Maria . . . p. 192 VIL TRADUZIONI 24. ALBERT VERWEY, Vita Nuova § VIII Sonetto IV e §XXSonettoX p. 195 25. Dott. nob. NICO VAN SUCHTELEN, § VII Sonetto II. § XXI Sonetto XI, § XXVI Sonetto XV P- 197 26. Dott. EDW. B. KOSTER, Paolo e Francesca .... p. 199 27. A. H. J. VAN DELFT Pr., II conté Ugolino p. 201 28. J. K. RENSBURG, Purgatorio, Canto XXX p. 205 29. Dott. H. J. BOEKEN, Paradiso, Canto XXXIII .... p. 210 VIII. BIBLIOGRAFIA 30. Dott. J. BERG, Dante in Olanda: studio bibliografico . . p. 214 Stampato nei mesi da marzo a giugno 1921 presso la ditta Mouton dell'Aia coi tipi di S. H. de Roos. Edizione di quattrocento esemplari numerati, dei quali 50 su carta d'Olanda di Van Gelder. II presente esemplare porta il N° 243 I